Basta restare uniti a Lui

Commento al Vangelo della V domenica di Pasqua, Anno B

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“Senza” Gesù siamo uno zero assoluto. Ma “in” Lui, la nostra vita, quella che abbiamo oggi tra le mani, semplice o complicata, afflitta da malattie, da paure, ferita dalle tante debolezze che ci accompagnano, questa vita è stupenda, un’avventura irripetibile donataci per disseminare di frutti squisiti i nostri giorni, capaci di mostrare Dio e il Cielo a ogni uomo.

Ma spesso, di fronte agli eventi e alle relazioni, scoprendoci incapaci di comprendere la realtà e di affrontarla, entriamo in crisi cercandone il senso, mentre è tutto così semplice: “rimanere in Lui”, dimorare in Cristo, ecco tutto. Lasciarci amare, alzare bandiera bianca, gettare via da noi il pensiero “aiutati che Dio t’aiuta” che troppo spesso ci accompagna, aggrappati a Lui, alle sue braccia distese per amore, “come la vite al tralcio”.

“Rimanere in Lui” non significa inventarsi chissà che cosa, è, semplicemente, essere crocifissi con LuiE’ “rimanere” lì dove Lui ci conduce, nella storia concreta dell’unico oggi che ci appartiene, quello reale che siamo chiamati a vivere. “Senza di Lui non possiamo fare nulla”: dovremmo scrivere questa frase e appenderla dove più spesso la possiamo leggere. Nulla.

Il Signore non dice che, sforzandoci, impegnandoci, anche senza di Lui potremmo cominciare a metterci del nostro, qualcosa, che so? buone intenzioni o progetti o altro, qualcosa a cui Lui, poi, darebbe compimento. No, il Signore ci dice che senza di Lui nulla possiamo.

San Paolo lo ha sperimentato. Che cosa ha fatto per diventare l’apostolo delle genti? Nulla. Correva fremendo di zelo contro i cristiani, sino a che non è inciampato sull’amore di Dio. E solo lì, a terra, senza forze, avvolto dalla luce della Pasqua, ha potuto ascoltare la voce che gli rivelava la Verità: tutto quello zelo non era altro che un “recalcitrare contro il pungolo”, uno sforzo inutile e dannoso.

In quella caduta Paolo ha cominciato ad imparare che solo restando unito a Cristo avrebbe potuto essere quello per cui era venuto al mondo e per cui era stato eletto. Non a caso, infatti, accanto alla missione, Gesù gli aveva profetizzato le sofferenze che avrebbe patito per il suo Nome. Perché sono le sofferenze che mettono in luce la qualità dell’opera di ciascuno. E Paolo, sin dal principio della sua vita nuova in Cristo, ha dovuto sopportarne molte, dalla paura e dalla diffidenza nei suoi confronti della prima comunità cristiana, all’odio dei suoi fratelli che, ascoltandolo “parlare apertamente nel nome di Gesù” e “discutere” con loro, “volevano ucciderlo”.

Non si scappa, senza essere uniti a Cristo anche quello che facciamo è nulla, fumo che il vento porta via. Le opere, i pensieri, le parole, tutto quello che non ha in Lui origine e compimento è destinato a sfarinarsi nell’inconsistenza. Senza di Lui non possiamo dare il frutto dell’amore che scaturisce dal Vangelo, perché senza la linfa del suo Spirito non vi è fecondità e libertà.

Come quella sperimentata da San Paolo che, unito a Cristo nella comunione con “i discepoli” “stava con loro, e andava e veniva” ed era da loro difeso e protetto. Senza di Lui ogni sforzo è inutile, e la vita non è che vanità di vanità, “amore a parole e di lingua”, ben lontano dai “fatti” e dalla “verità”.

Pensiamo al nostro matrimonio, al fidanzamento, allo studio, al lavoro, all’amicizia. Pensiamo a una passeggiata tra i boschi, a una visita al museo, alla spesa del sabato, a una cena in pizzeria con la fidanzata, o a una dolorosa degenza in ospedale, una notte di studio alla vigilia di un esame, una discussione con la figlia che non riusciamo proprio a capire, pensiamo a qualunque momento della nostra vita, pensiamolo vissuto in Cristo, alla sua presenza, illuminato dalla sua Parola, sostenuto dalla sua forza; e pensiamolo chiuso in noi stessi, schiacciato sulle nostre forze, preda dei nostri impulsi e delle nostre ispirazioni.

Scopriremo la stessa differenza che vi è tra il giorno e la notte, tra la luce e le tenebre, tra la vita e la morte. In Cristo tutto ha un sapore, una forza, un’autenticità impensabili. In Lui anche una semplice passeggiata è tutta un’altra cosa. Anche un viaggio, anche una partita allo stadio. Proprio dal non accettare la verità che “senza il Signore non possiamo fare nulla”, provengono tante sofferenze. 

Il tentare e ritentare di farcela da soli, liberi dal giogo della Croce, staccati dalla vite che sola può trasmetterci la vita e dare pienezza a ogni cosa. E vediamo “seccarsi” i rapporti, e dobbiamo “gettare” nel “fuoco che brucia” gli “amori” che sembravano eterni, le amicizie che ritenevamo inossidabili. Spesso scopriamo come rami secchi i nostri stessi pensieri, sterili e angoscianti, i nostri progetti irrealizzati, i nostri sogni infranti.

Ma questa Domenica il Signore viene a cercarci per prenderci con Lui, per attirarci a sé, per “potare” i rami secchi che già abbiamo staccato dal tronco della Croce, perché abbandoniamo finalmente l’inganno di ritenerci importanti, indispensabili, imprescindibili.

Il Padre, infatti, ci “pota” come “un vignaiolo” pieno di amore e pazienza, perché possiamo offrire al mondo i “frutti” di ogni istante della nostra vita, della gioventù, dell’età matura, della vecchiaia, della salute e della malattia, del successo e del fallimento. Apri gli occhi allora, e vedrai che tutta la tua storia è stata una “potatura” piena di misericordia.

Eccolo dunque il Signore che viene a unirci di nuovo a sé, con questo Vangelo, con i sacramenti e la comunione della Chiesa. Abbandoniamoci dunque al suo amore, oggi, nell’eucarestia, nella preghiera, nella vita. Consegniamogli tutto noi stessi e chiediamogli l’unico necessario: il suo Spirito che, come linfa vitale, ci leghi a Lui eternamente per operare in noi le sue opere, che parli in noi le “sue parole”, che faccia scaturire il “frutto” per il quale siamo nati. 

Fratelli, “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”. Dio sa che siamo deboli, ma che nel fondo del nostro cuore c’è il desiderio di amarlo e di amare i fratelli. Per questo ci ha donato suo Figlio, nel quale ogni nostra parola, pensiero e gesto “porta un frutto che rimane”. Se “crediamo nel Nome del Signore Gesù Cristo”, se cioè ci appoggiamo a Lui, sarà Gesù stesso a compiere in noi l’amore tra i fratelli, “secondo il precetto che ci ha dato”.

L’amore che risplende nella comunità cristiana, infatti, è il “frutto bello, buono”, consistente, “glorioso” – ovvero “di peso” – offerto da Dio ad ogni uomo. Tutto, infatti, è per la maggior “Gloria” di Dio, la sua presenza più vera e credibile in questa terra, perché la sua “gloria” è l’uomo che vive davvero, in pienezza, libero e adulto nella fede, l’uomo che si dona per amore, gratuitamente. 

Se in noi si dà l’amore possiamo “rassicurare il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri”. Coscienti dei nostri limiti e difetti ci appoggeremo con “fiducia” a Cristo uniti al quale “faremo quello che è gradito a Dio”; nulla più sarà impossibile, perché “ogni cosa che chiederemo” avrà il gusto del bene da offrire al fratello e non l’effimera gioia di un istante, e per questo la “riceveremo da Dio”.

Fantastico no? La salvezza di ogni uomo, di tuo figlio e di tua zia, l’incontro con Cristo per ogni uomo – “ci sarà donato”: basta restare uniti a Lui e lasciare che “le sue parole rimangano” e si compiano in noi. Perché la volontà di Dio fluisce come linfa da Cristo a noi e al mondo attraverso il legno della Croce.

Coraggio allora, perché lo Spirito Santo ci fa “dimorare in Dio” concretamente, ovvero amando che è la sintesi di ogni “comandamento”. E chi ama “osserva i comandamenti”, cammina cioè come un “discepolo” sulle orme luminose della volontà di Dio per “portare il molto frutto” c
he “glorifica il Padre” nella storia.

La Gloria di Dio, infatti, brilla nel mondo attraverso il “frutto” squisito di un fidanzamento nel quale, “uniti a Lui come i tralci alla vite”, due fidanzati possono lottare per custodire la castità e vedere la propria relazione risplendere ogni giorno di una luce serena che li accompagna al matrimonio illuminando la volontà di Dio: un fidanzamento “potato”, tagliato nei rami secchi della concupiscenza e dell’egoismo impaziente, un fidanzamento che cresce rispettoso, prudente, avvolto di santo timore, protetto dal pudore.

Il “frutto” di un matrimonio santo, aperto alla vita, nel dono libero e totale di sé, “potato” nei rami secchi dell’infedeltà quotidiana all’unica sposa e all’unico sposo, quella che difende il proprio tempo e afferma violentemente i propri criteri.

Il “frutto” di un lavoro “potato” attraverso le difficoltà e le ingiustizie e, per questo, che diviene un’occupazione nella quale offrirsi per i colleghi, per i superiori e gli inferiori, rintracciando in ogni mansione il momento favorevole per aprirsi agli altri e far gustare il proprio sapore unico e inconfondibile dell’amore di Cristo.

Il “frutto” dello studio “potato” della pigrizia e dell’idolatria di voti e risultati che lo fa offrire a se stessi, nel quale apprendere a non fare la propria volontà, a soffrire per compiere quella di Dio, la libertà di chi non è più schiavo del dover fare sempre e solo quello che piace, consola e costruisce se stessi; lo studio che prepara a un futuro di amore autentico, al lavoro e alla famiglia. 

Che Dio ci doni di “diventare suoi discepoli”, che lo seguono ascoltando umilmente le “sue parole” che ci “purificano” dall’idolatria, “osservandole”, cioè custodendole e curandole perché diano frutto. E ciò avviene solo attraverso un serio cammino di iniziazione cristiana nella Chiesa, nel quale crescere sino alla statura adulta della fede per imparare a “rimanere” nel torchio della storia: stretti alla Croce di ogni giorno, pigiati completamente dalle difficoltà, dalle sofferenze e dagli imprevisti che, proprio perché ci spremono, costituiscono l’occasione grazie alla quale il succo di vita che Cristo depone in noi possa dissetare il mondo.

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Antonello Iapicca

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