La poesia in dialetto di Francesco Ruspoli

Un ricordo dell’autore che Montanelli definì “il più grande poeta romanesco dopo Trilussa”

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Indro Montanelli lo definì “il più grande poeta romanesco dopo Trilussa”, e anche Curzio Malaparte ne apprezzò la vena poetica sospesa fra due polarità d’ispirazione linguistica: la poesia dialettale, che usa il vernacolo romanesco per rappresentare un’anima popolare mai sopita, e la poesia in lingua, che tenta d’inseguire una verità perduta, incarnata nella profondità della Maremma, da lui tanto amata.

Discendente da un’antica e nobile famiglia originaria di Firenze, trasferitasi a Roma nel XVII secolo, Francesco Ruspoli nasce nel 1899. Poco più che adolescente, parte volontario per il fronte, dove combatte sul Carso e a Col di Lana. Nel dopoguerra prende parte attiva alla vita sociale del suo tempo. Durante la seconda guerra mondiale comanda una squadriglia di aerei S.M.79 Savoia-Marchetti. Pluridecorato al valore militare, combatte sul Mediterraneo e nei cieli di Grecia e d’Albania. Alla resa dell’Italia con l’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943, Ruspoli si chiude in un grande silenzio, ferito nel sentimento patriottico che aveva animato i suoi ardori giovanili ed intristito dalla perdita, in guerra, di parenti ed amici.

Al termine del conflitto, a soli quarantacinque anni, Francesco Ruspoli prende definitivamente le distanze da ogni impegno sociale e politico, dedicandosi esclusivamente alla pittura e alla poesia. L’uomo d’azione cede il posto al poeta. È facile ipotizzare che, all’origine di questa “conversione”, vi sia la delusione storica per l’esito della guerra, associata a più generali interrogativi sulla vicenda umana, in ragione della sua sensibile natura d’artista. D’altra parte, come scrisse Goethe, “L’arte è il modo più sicuro per evadere dal mondo e, al tempo stesso, il legame più sicuro col mondo”.

Le poesie di Francesco Ruspoli sono state raccolte nel volume Pidocchietto (2004, Pagine Editore) a cura del figlio, Sforza Ruspoli: un’opera che si svolge lungo due linee “parallele” – poesia in lingua e poesia in dialetto – tra le quali è facile individuare un’intima convergenza, nel rifiuto dei falsi miti del progresso e delle sue evidenti contraddizioni. Abbiamo scelto da questo libro due componimenti dialettali dedicati a un luogo topico dell’ispirazione del poeta: la città di Roma. La prima poesia s’intitola Pietà pe’ Roma e venne scritta in occasione della partenza della Pietà di Michelangelo per l’Esposizione Universale di New York, dove il capolavoro scultoreo venne ospitato dal 1962 al 1964.

PIETÀ PE’ ROMA

Si Goethe nun sia mai tornasse a Roma
entranno dalla Cassia o la Flaminia,
so’ certo che a vedè tanta ignominia
nun so’ si che direbbe ner suo idioma.
No, nun c’è più pietà pe’ Roma nostra.
La sventrano, la spaccano, la sbranano,
l’umiliano, la zozzano, la stroncano.
Le strade so’ un inferno, so’ ‘na giostra.
Er sinnaco poraccio in Campidojo
tra debiti, cambiali, arrangiamenti
mo’ se dovrà impegnà li monumenti
pe’ cercà de sarvasse dall’imbrojo.
Li santi stanno in chiesa pe’ dispetto,
nun fanno più miracoli né gnente
perché se so’ stufati de’ sta gente
che nun cià più né fede né rispetto.
Sì, ce sta ancora una pietà a San Pietro,
quella de Michelangelo, ma pare
che presto partirà pe’ l’ortremare
e noi aspettanno che aritorni addietro,
co’ la filosofia delli romani
abbozzamo, speranno ner domani.

*

La seconda poesia, Pidocchietto, è quella che dà il titolo al libro. Godibilissimo bozzetto, tutto giocato sul tono dell’ironia, che, dietro il paravento della satira politica, offre l’occasione per una rappresentazione della commedia umana, dove i due protagonisti, pur nella distanza delle rispettive appartenenze sociali, sono complici involontari di una medesima scenografia.

PIDOCCHIETTO

Pidocchietto è un poveretto
che domanna alli passanti
quattro sordi pe’ annà avanti
con un po’ de carità.
Appoggiato ar parapetto
a metà de ponte Sisto
l’antro giorno l’ho rivisto
e je chiesi: “Come và?”
Poi rimasi accanto a lui
affacciato ar murajone;
se vedeva er Cuppolone
che covava la città.
Sotto ar ponte l’acqua gialla
scivolava lenta lenta,
in quell’ora quasi spenta
cominciammo a ragionà.
“Pidocchiè” je dissi a un tratto,
“nun sia mai che tutto ‘n bòtto
azzeccassi un terno a lotto
che te metteressi a fà?”
Me guardò co’ n’aria strana,
co’ na certa sufficienza
e rispose: “Ma, eccellenza,
farei quello che sto a fa!
Lei se porta un nome antico
che je pesa sulla schiena,
deve fare l’artalena
tra li sogni e la realtà.
Lei è sfruttato dai partiti
che l’additano alle masse
pe’ svejà l’odio de classe
che je serve a governà.
Ve se chiedono i doveri,
ve se negano i diritti
e ve fanno stare zitti
se provate a reclamà.
Tra le tasse e tra gli espropri
che ve fa l’Ente Maremma,
ve rimane quello stemma
che dovete conservà.
Dare addosso alli signori
è il programma nazionale,
è l’artissimo ideale della nova civirtà”.
Me guardò; vortò le tasche
dei suoi larghi pantaloni
“Questi quà so’ li mijoni
co’ li quali poi campà.
Vivo male ma in compenso
so’ da tutti rispettato,
so’ compreso, so’ aiutato
con amore e carità.
Dove busso è porta aperta.
Sono andato in Vaticano,
non c’è principe romano
che abbia tanta autorità.
Sono andato da Tojatti
che m’ha detto ‘Pidocchietto
tu sei er simbolo perfetto
della nostra società’.
Me s’inchinano i portieri,
li passanti, i generali;
fanno a gara li giornali
pe’ proteggeme e adulà.
Se un ber giorno tutti ricchi
faccia conto ce svejamo,
tutti quelli che sfamiamo
co’ la nostra povertà
strillerebbero da matti
e il pezzente Pidocchietto
insurtato e maledetto
se dovrebbe avvelenà”.
“Già”, je dissi, “ma te manca
er conforto der progresso”.
“Eccellenza, si uno è fesso,
sto mestiere nun lo fa.
Anzi scusi se m’azzardo
ma siccome in confidenza
so’ che adesso sua eccellenza
vive un po’ in difficortà,
potrei pure accreditaje
una somma, se credesse,
faccio sconto all’interesse
pe’ la bòna società”.
Lo guardai co’ meravija
“Pidocchiè, ma fussi matto?”
me rispose: “Niente affatto,
si quer giorno à dà arrivà.
Se ricordi sua eccellenza
de sto pòro Pidocchietto,
forse er solo che ha rispetto
pe’ la vecchia nobirtà”.
E appoggiannose ar bastone
se ne anniede piano piano
fece un segno da lontano
pe’ volemme salutà.
Sotto ar ponte l’acqua gialla
scivolava lenta lenta,
in quell’ora quasi spenta
io rimasi a medità.

***

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Massimo Nardi

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