Sorridente, minuta, pacifica, c’era anche lei in mezzo ai potenti della terra: Maria “Emmaus” Voce, la presidente dei Focolari succeduta alla fondatrice Chiara Lubich, intervenuta ieri al Palazzo di Vetro di New York.
Per la loro assemblea generale, oltre ai rappresentanti degli Stati Membri, le Nazioni Unite hanno invitato infatti anche esponenti e leader di diverse religioni per dibattere insieme sul tema «Promozione della tolleranza e della riconciliazione: favorendo società pacifiche, accoglienti e contrastando l’estremismo violento».
La Voce esordisce con candore: “Vi racconto una storia”, dice. Riporta quindi la mente al lontano 1943, quando “nella terribile fase finale della seconda guerra mondiale”, in mezzo alle bombe e alla paura, un gruppo di ragazze si riunisce nella piccola città di Trento, sotto la guida di Silvia, giovanissima insegnante che passerà poi alla storia con il nome di Chiara Lubich.
Lei e le altre ragazze, “animate da una rinnovata comprensione della radicalità dell’amore evangelico, decidono di rischiare le loro vite per alleviare le sofferenze dei poveri”. Un gesto che tanti altri prima di loro hanno fatto, ma che in quel momento storico ha “la forza e la valenza di immettere nel circuito distruttivo del conflitto l’impegno per la rigenerazione del tessuto sociale”.
Tutto crollava all’epoca, ma quelle ragazze decisero invece di costruire, cominciando dallo “spezzare il circolo vizioso della violenza” che in quel momento storico regnava sovrana. In quel clima del conflitto i gesti e le opere delle giovani “sarebbero potute apparire velleitarie o persino irrilevanti”. Ma “non fu così”, assicura Maria Voce, “non è così”.
Anche oggi viviamo infatti “una situazione di gravissima disgregazione politica, istituzionale, economica, sociale, che richiede risposte altrettanto radicali, capaci di cambiare il paradigma prevalente”. Anche oggi sembra insignificante qualsiasi azione di pace davanti alle violenze e ai conflitti che sembrano “dominare larghe aree del pianeta”, a danno di persone innocenti, “ree solo di trovarsi in un territorio conteso, di appartenere a una determinata etnia o di professare una determinata religione”.
Ma non è così. Anzi a questo “estremismo della violenza” si deve rispondere “con altrettanta radicalità” – afferma la presidente dei Focolari – perché “oggi non è il tempo delle mezze misure”. All’estremismo bisogna allora contrapporre un altro tipo di estremismo, “strutturalmente diverso”, che è “l’estremismo del dialogo”.
Dialogo che “è rischioso, esigente, sfidante, che punta a recidere le radici dell’incomprensione, della paura, del risentimento” e che “richiede il massimo di coinvolgimento”. Il dialogo, cioè, che il movimento dei Focolari cerca di portare avanti da decenni, facendosi piattaforma di incontro tra culture e religioni, andando oltre “la tolleranza o il semplice riconoscimento della diversità”, anche in contesti di gravi crisi.
In questo ambito opera anche l’iniziativa dell’«Alleanza delle Civiltà», che – spiega la leader cattolica – “tende a sottolineare ciò che unisce l’umanità in tutte le sue molteplici espressioni piuttosto che ciò che sembrerebbe, a prima vista, dividerla”.
Oggi, tuttavia, sarebbe meglio puntare ad una “civiltà dell’alleanza”, ovvero “una civiltà universale che fa sì che i popoli si considerino parte della grande vicenda, plurale e affascinante, del cammino dell’umanità verso l’unità”, e che possano riconoscersi “liberi, uguali, fratelli”.
La leader focolare si rivolge quindi direttamente all’Onu, esortando, “di fronte a un consesso così ampio e inclusivo”, a chiedersi se forse non sarebbe meglio “ripensare la propria vocazione e riformulare la propria missione fondamentale”. “Cosa vuol dire, oggi, essere l’organizzazione delle ‘Nazioni Unite’, se non un’istituzione che davvero si adopera per l’unità delle nazioni, nel rispetto delle loro ricchissime identità?”, domanda la Voce.
Certamente è fondamentale lavorare per il mantenimento della sicurezza internazionale, ma ancora più indispensabile è la pace. Perché “i conflitti interni e internazionali, le profonde divisioni che registriamo su scala mondiale, assieme alle grandi ingiustizie locali e planetarie richiedono una vera conversione nei fatti e nelle scelte della governance globale”.
Non si dovrebbe pertanto “cedere terreno a chi tenta di presentare molti dei conflitti in corso come ‘guerre di religione’”. Perché “la guerra è, per definizione, l’irreligione”, afferma Maria Voce. E come diceva Chiara Lubich, all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001 e degli interventi militari in Afghanistan (2001) e in Iraq (2003): “La guerra non è mai santa, e non lo è mai stata. Dio non la vuole. Solo la pace è veramente santa, perché Dio stesso è la pace”. Pertanto gli aspetti religiosi dei conflitti sono solo un pretesto che nascondono ben altre cause come “militarismo, egemonia economica, intolleranza a tutti i livelli”.
“Quello a cui assistiamo in molte aree del pianeta, dal Medio oriente all’Africa, tra cui la tragedia di centinaia di morti in fuga dalla guerra e naufragati nel Mediterraneo, ha molto poco a che fare con la religione”, ribadisce la focolarina. Semmai, dice, in tanti casi si dovrebbe parlare più realisticamente e prosaicamente “di religione della guerra”.
In tal contesto, le religioni vogliono dunque “essere sé stesse”, e non “strumento utilizzato da altri poteri, fosse anche per fini nobilissimi”, tantomeno “una formula studiata a tavolino per risolvere conflitti o crisi”; le religioni – conclude Maria Voce – vogliono essere cioè “un processo spirituale che si incarna e diventa comunità che condivide e dà senso a gioie e sofferenze dell’uomo di oggi, convogliando tutto alla realizzazione dell’unica famiglia umana universale”.