“Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20). Si apre con questa citazione dal Vangelo di Giovanni, il film documentario Libertà per Asia Bibi, presentato martedì 14 aprile all’Hotel Columbus di Roma.
Alla proiezione, in anteprima mondiale, erano presenti il marito di Asia Bibi, Ashiq Masih, e la figlia Eisham Ashiq. I familiari della donna hanno deciso di intraprendere un tour europeo, sponsorizzato dall’organizzazione cattolica spagnola HazteOir, per sensibilizzare governi e cittadini europei sulla questione.
Ispirato dal libro Blasfema. Condannata a morte per un sorso d’acqua, della giornalista francese Anne-Isabelle Tollet, il film è stato realizzato grazie al viaggio in Pakistan di Ignacio Arsuaga, presidente di HazteOir.org e di CitizenGO, entrambe coinvolte nella produzione del film.
Il documentario non racconta solo la storia di una perseguitata ma anche la storia del popolo pakistano, diviso tra una maggioranza fondamentalista islamica e una minoranza cristiana; racconta il coraggio di uomini e donne che mettono a rischio la propria vita per la liberazione di Bibi; racconta, infine, l’abuso della legge anti-blasfemia pakistana, una legge per la quale si può essere condannati a morte anche solo con un’accusa, il più delle volte infondata.
Girato con estrema cura nei dettagli e precisione stilistica, il film ha la grande capacità di non limitarsi a raccontare ma di far partecipare emotivamente ed empaticamente lo spettatore.
Alle immagini riprese dal vivo che seguono la Tollet nel suo reportage, si alternano scene riprese da vecchi giornali o documentari e interviste originali a familiari, amici, abitanti del luogo.
L’effetto è quello di pura oggettività nel rappresentare la realtà. Sarebbe falso pensare, e far pensare, che in Pakistan o nel mondo tutti vogliano Asia Bibi libera, che tutti la ritengano una povera vittima… la verità è che molti pakistani fondamentalisti la considerano colpevole e, per questo, sono felici che sia stata condannata a morte. In quest’ottica, alternare le dichiarazioni dei parenti della donna e delle persone che combattono per la sua libertà, con quelle di chi, in nome di Maometto, gioiscono per la sua condanna a morte, dà allo spettatore la possibilità di conoscere tutte le parti in gioco e le difficoltà esistenti nel far liberare la vittima cristiana.
Se da una parte ascoltiamo le dichiarazioni di Papa Benedetto XVI in favore della liberazione della donna Pakistana, dall’altra assistiamo alle agghiaccianti testimonianze degli integralisti islamici del suo villaggio: “se la bestemmiatrice venisse liberata saremmo pronti ad attuare una guerra civile”. Solo mostrando la realtà nella sua spietata crudezza si può sperare che tutti capiscano le profonde problematiche di tale questione, a cui non sono connesse le sole autorità religiose e politiche pakistane ma lo stesso popolo, che può essere al contempo vittima e carnefice.
Il risultato è straordinario: lo spettatore non entra solo a conoscenza di una realtà forse sconosciuta ma la vive, la respira, la interiorizza, con l’effetto di tornare a casa e volerla raccontare, volerla diffondere.
Asia Bibi è prigioniera ormai da più di 2000 giorni perché ingiustamente accusata… perché vittima dell’abuso di una legge… perché cristiana.
La richiesta di aiuto del marito e della figlia, nel film così come in conferenza stampa al parlamento italiano, sono state chiare e senza mezzi termini. In Pakistan chi ha provato a far liberare Asia, come il governatore del Punjab Salmaan Taseer e il Ministro per le Minoranze Shahbaz Bhatti, è stato barbaramente ucciso. Ora è necessario che i governi europei mettano pressione al Pakistan affinché Bibi venga liberata e affinché la legge possa essere applicata in modo più giusto.
Questo documentario può essere uno strumento ottimale per diffondere la storia di Asia Bibi, per farla conoscere al mondo e per sensibilizzare tutte quelle persone che non si sono mai poste una domanda fondamentale, una domanda che sta alla base di questa storia: e se fossi io a vivere in un paese dove non si è liberi di professare la propria religione?