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Che cosa sosteneva il Decreto Perfectae Caritatis, qual è la sua attualità e perché lo ha indicato come punto di riferimento?
Riprendendo in Perfectae caritatis, come unica citazione, un testo di sant’Ambrogio, i Padri del Vaticano II volevano sia presentare Cristo-vergine e la Vergine Maria come dei modelli fontali o archetipici e ribadire la sensatezza di una scelta di vita consacrata in età contemporanea, sia aprire una nuova stagione di approfondimenti sulla condizione consacrata, non soltanto femminile, che sarebbe dovuta passare attraverso un profilo messianico-escatologico.
Inoltre, insistevano i Padri, sulla condizione verginale, liberamente scelta,che non sarebbe mai dovuta apparire pericolosa nei tempi nuovi, né per la società, né per la Chiesa, ma segno splendente della vita del mondo che sta per venire, da additare a tutti gli altri credenti. Essi rilanciavano la dimensione ecclesiale della vita religiosa, ovvero il suo legame con la vita e la santità della Chiesa, in cui i religiosi sono destinati ad un più alto servizio nel popolo di Dio e, mediante un’azione liturgica, sono presentati ritualmente come esponenti di un stato di speciale consacrazione a Dio.
A distanza di cinquant’anni dal Decreto voglio ripetere che il Concilio non ha chiuso, ma ha aperto davvero una nuova stagione. Raggiungere al massimo grado la carità per mezzo dei consigli evangelici, insomma, è ancora possibile, purché il processo avvenga con delle modalità tutte qualificate dalla radicalità e dalla stabilità della professione dei consigli del Maestro dei Vangeli. E, soprattutto, avendo il coraggio di osare vie nuove. Sul piano teologico occorre soprattutto approfondire la configurazione ecclesiologica di quelli che a lungo sono stati chiamati religiosi. Non collegabile a uno specifico sacramento (come lo sono, invece, il clero rispetto all’Ordine sacro e, rispetto al Matrimonio, i laici), lo stile consacrato di vita santa deve essere ripensato quale concretizzazione specifica del Battesimo, il sacramento accomunante e, per così dire, dell’eguaglianza di base tra tutti i fedeli di Gesù Cristo.
Quali soluzioni propone per risolvere la crisi?
I suggerimenti che ho indicato nel libro sono stati ripresi dalla Lettera apostolica per l’anno della vita consacrata, che Papa Francesco ha voluto domandare a noi tutti, incalzandoci con i suoi pressanti interrogativi: «Gesù, dobbiamo domandarci ancora, è davvero il primo e l’unico amore, come ci siamo prefissi quando abbiamo professato i nostri voti?» (n. 2). Ecco un primo suggerimento: mettere al primo posto, nelle motivazioni e nell’esistenza, l’innamoramento e l’amore per Gesù Cristo. Lui, solo Lui, e non altri “piccoli” amori.
E ancora, seguendo il Papa: «I nostri ministeri, le nostre opere, le nostre presenze, rispondono a quanto lo Spirito ha chiesto ai nostri Fondatori, sono adeguati a perseguirne le finalità nella società e nella Chiesa di oggi? C’è qualcosa che dobbiamo cambiare? Abbiamo la stessa passione per la nostra gente, siamo ad essa vicini fino a condividerne le gioie e i dolori, così da comprendere veramente le necessità e poter offrire il nostro contributo per rispondervi?».
Siamo in presenza di altre possibili indicazioni operative: ritrovare i “carismi” originari, fondazionali, cioè riconoscere la speciale configurazione del comune impegno dei consacrati a raggiungere la perfetta carità di Cristo, “misura” della statura da raggiungere. Il carisma ritrovato chiede, poi, decisioni coraggiose anche in ordine alla rinuncia a quanto non risulta più adeguato rispetto alle originarie esigenze dei Fondatori e rispetto a quanto viene esigito da società e Chiesa odierne.
Quanto poi alle attese del Papa, ho scritto: «Dobbiamo interrogarci anche sul rapporto tra le persone di culture diverse, considerando che le nostre comunità diventano sempre più internazionali. Come consentire ad ognuno di esprimersi, di essere accolto con i suoi doni specifici, di diventare pienamente corresponsabile? Mi aspetto inoltre che cresca la comunione tra i membri dei diversi Istituti. Non potrebbe essere quest’Anno l’occasione per uscire con maggior coraggio dai confini del proprio Istituto per elaborare insieme, a livello locale e globale, progetti comuni di formazione, di evangelizzazione, di interventi sociali?».
Ecco altre due chiare indicazioni risolutive e operative, sulle quali insistere: in primo luogo, prendere sul serio il processo di internazionalizzazione delle nostre Istituzioni (con tutti i problemi tipici delle società multiculturali, anche con problemi di coesistenza tra visioni del mondo diverse e plurali, pur nell’unità di intenti); in secondo luogo, cooperare tra Istituzioni affini, anche mediante opportune e condivise forme di integrazione, accorpamento e fusione tra spiritualità simili: unire le forze, a livello mondiale, farebbe molto bene alla Chiesa in uscita.
C’è un “effetto Bergoglio” nelle vocazioni per la vita consacrata?
L’atteggiamento di fondo che papa Bergoglio invita a tenere in vista di un diffuso, legittimo e auspicato desiderio di cambiamento nella Chiesa, così come nella vita consacrata, non è altro che un vero e proprio annuncio dello spirito di riforma: san Giovanni XXIII avrebbe detto di aggiornamento. Esso, peraltro, percorre da decenni la Chiesa postconciliare, sollecitata appunto dai suoi Pontefici e Vescovi a non temere, anche di fronte a cambiamenti vertiginosi, tipici della vita contemporanea e che, a volte, accompagnano il tramonto prematuro di prassi e di valori consolidati.
Del resto, ragiona papa Francesco, e noi con lui, se «una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo», non dobbiamo fare una pastorale vocazionale audace, che assecondi la voglia di cambiamento, tipica dei più giovani? Ecco, allora, la domanda da fare: abbiamo anche noi grandi visioni e slancio? Siamo anche noi audaci? Il nostro sogno vola alto? Siamo divorati dallo zelo (cf. Sal 69,10), oppure ci accontentiamo della nostra mediocritas, delle nostre programmazioni apostoliche di laboratorio? (Cf.Omelia alla Santa Messa nella Chiesa del Gesù nella ricorrenza del Santissimo Nome di Gesù, Roma, 3 gennaio 2014).
Il Papa è un gesuita, consacrato nella Compagnia di Sant’Ignazio, e sta mostrando concretamente che cosa voglia dire svolgere il servizio petrino con una sensibilità di un “consacrato” alla maggiore gloria di Dio. In questo senso, c’è, ci può essere, soprattutto a livello di pastorale vocazionale, un “effetto Bergoglio”, che va raccolto: mettere nuova audacia, annunciare una riforma possibile, versare del vino nuovo in otri nuovi. È quanto egli ha affermato nel Discorso alla plenaria della Congregazione per la vita consacrata del 27 novembre 2014, cercando una sintesi tra l’oggi postconciliare della vita consacrata, ricorrendo all’espressione evangelica di Mc 2,22: vino nuovo in otri nuovi. In questo senso direi che è arduo chiudere in un qualsiasi schema lo Spirito Santo: è Lui il vino nuovo.
Si potrebbe mai sapere in assoluto da dove viene e dove sta portando una esperienza nello Spirito? Non a caso, santa Chiara, invitando Agnese di Boemia a guardare lo specchio che è il Signore Gesù, nella totalità del suo mistero di povertà e di gloria, precisava: “Scrutare in esso il tuo proprio volto: quotidie, ogni giorno […], di continuo, senza interruzione” (FF. 2859-2911. I, II, III, IV Lettera ad Agnese di Praga). Con una vita così configurata, chi si consacra al Signore – facendosi otre nuovo per il vino nuovo dello Spirito – diventa “teologo” e “teofilo”, segue la propria rotta e spinge il proprio vascello in mare aperto, verso l’eternità.