“I ragazzi nel carcere non sono diversi dagli altri perché in questo luogo vi sono le problematiche della società intera. Non hanno bisogno di pacche sulle spalle, ma desiderano risposte concrete e realiste”. È quando dichiara don Domenico Ricca, salesiano, cappellano del carcere minorile di Torino, una delle tappe del prossimo viaggio di Papa Francesco il 21 e 22 giugno. A colloquio con ZENIT, il sacerdote racconta la sua vocazione, la sua opera con i ragazzi e di quella “pedagogia della presenza” che egli stesso ha ideato per prevenire i disagi giovanili. Di seguito l’intervista.
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Perché è diventato salesiano e come coniuga il carisma di Don Bosco con la sua attività?
Ho frequentato le scuole superiori dai salesiani, lì ho conosciuto persone che sono riuscite ad entusiasmarmi, trasmettendomi non solo dei contenuti, ma anche delle emozioni. Nella vita si va avanti passo dopo passo e, solo voltandoci indietro, ci accorgiamo del cammino percorso: credo di essere semplicemente nella schiera di tanti persone che giovanissime hanno scelto di diventare salesiani. Dal tirocinio a Cuneo, agli studi teologici, sono passato al sacerdozio, prete da oratorio e la scelta di fare il cappellano nelle carceri, ormai 35 anni fa, è stata una scommessa della vita, un’opportunità casuale, offertami da un semplice trasferimento. Allora avevo 33 anni e di questo mio compito ho fatto la sfida della mia esistenza!
Forse tutto ciò stava già nelle mie corde in quanto avevo scelto di insegnare appena prete, in via Pesaro a Torino, a ragazzi con diverse problematiche, provati da carenze famigliari, immigrati. Ho affrontato l’esperienza delle carceri prima cercando bene di capire quale realtà fosse e poi impegnandomi ad adattarmi in fretta ai cambiamenti. Quello che più mi ha impressionato, in senso positivo, è che il carcere è un luogo di osservazione della realtà giovanile. I ragazzi che sono lì non sono altri rispetto a quelli che sono fuori, ma più conosci le loro storie di vita, più ti accorgi che magari sono simili a quelli che hai incontrato nella scuola prima o nell’oratorio…
Lei ha più volte ricordato che il suo sogno è abbattere il pregiudizio. Quali sono ancora oggi i problemi in un carcere minorile?
I problemi in un carcere sono i problemi di una società, il carcere non è una realtà altra dalla vita. Noi siamo tutti bravi con i bravi, come diceva il cardinale Martini, vescovo di Milano, quando affidò ai salesiani l’Opera di Arese. Il carcere non è una soluzione dei mali, ma, come diceva un grande studioso, la soluzione deprecabile di cui non possiamo fare a meno, dovrebbe non essere fondamentale. Purtroppo c’è e, a volte, serve a stoppare la corsa di vita dei ragazzi… I carceri rilevano anche l’incapacità della famiglia e degli operatori sociali di incontrare e relazionarsi con i ragazzi con problemi.
C’è stata un’evoluzione nella società nell’affrontare il problema delle carceri minorili?
Oggi siamo molto più attrezzati. La scuola è il luogo migliore dell’integrazione, in particolar modo nelle elementari, per limitare i problemi; ad esempio quelli legati all’immigrazione. La società oggi è molto meno solidale di un tempo, è molto più tesa ad accampare sempre i propri diritti; c’è un’ipertrofia dei diritti individuali. Tutto ciò si riversa sui giovani. Dagli anni ‘80 fino alla crisi odierna la rabbia è cresciuta… Il non poter raggiungere gli obiettivi, anche futili, di ognuno fa sì che il risentimento si riversi sullo straniero, sull’immigrato, sul diverso. Dieci anni fa il nemico numero uno era il tossico dipendente, ora sono gli immigrati, i rom.
Come è accolto il messaggio cristiano in questi luoghi?
Il nostro cammino cristiano è stato progressivo e non ha mai imposto niente. Trent’anni fa non avrei mai pensato di creare una cappellina perché il primo obiettivo era umanizzare il carcere e renderlo un luogo più vivibile, non segregato dove fossero possibili gli incontri, dove la gente potesse starci dentro e i ragazzi avessero la possibilità di uscire per incontrare la realtà sociale che li avrebbe accolti poi definitivamente. Poi c’è stato il boom dell’immigrazione e i ragazzi cristiani erano pochissimi, quasi nessuno… In questi ultimi anni ho capito che una cappella in carcere era un’esigenza fattibile. Certo non è possibile dilungarci nella catechesi… Celebriamo la messa a nostro modo per trasmettere dei messaggi . Bisogna mettersi in testa che la vita non è quella che si descrive nelle interviste, è molto più brutale. Ogni volta che celebro la Messa mi chiedo come andrà… L’importante è curare bene ciò che si semina e prendersi a cuore i ragazzi.
Io tratto i ragazzi come se fossero all’oratorio. Ho portato la dinamica pastorale dell’oratorio in carcere, dove incontri i ragazzi e fai loro capire che per te sono importanti. E’ importante saper valorizzare le loro storie e creare con loro un clima di fiducia. Non mi pongo mai il problema di come approcciarli: questa è la classica scusa per prendere le distanze dai ragazzi difficili, un modo per lavarsi le mani e tirarsi fuori… Già mia madre sosteneva che, presi da soli, i ragazzi sono bravissimi, ma insieme diventano problematici. Nei problemi dei giovani bisogna entrare con la testa e con il cuore! E’ ovvio che, per la mia attività, bisogna attrezzarsi e studiare mentre si procede! I ragazzi non hanno bisogno di pacche sulle spalle e di un generico “pregherò per te”, ma desiderano risposte concrete e realiste alle solo con la riflessione e talora anche lo studio ci si può arrivare.
Ha un consiglio per le famiglie o per i conoscenti di questi giovani?
I ragazzi vanno seguiti fin da quando hanno un giorno di vita. Molti genitori fanno l’errore gravissimo di non parlare con i figli fin da piccoli aspettando che diventino grandi. Ma per parlarci da grandi bisogna giocarci con i bambini da piccoli e condividere magari dei momenti futili. Io ho coniato il termine “la pedagogia della presenza”. La relazione è un rapporto che, a volte, richiede un rimprovero. Ad ogni età il ragazzo ha bisogno di avere accanto a sé una persona che risponda coerentemente alle sue richieste d’aiuto.