Gli armeni lo indicano come Metz Yeghern, il “Grande Male”. È un massacro iniziato un secolo fa, esattamente il 24 aprile 1915, nei confronti del popolo armeno allora residente nei confini dell’Impero ottomano. Nell’ambito della commemorazione di questo evento, che costò la vita a centinaia di migliaia di persone, papa Francesco celebrerà una Messa a San Pietro alle ore 10.00 di domenica prossima. Il gesto del Santo Padre si innesta in un percorso storico di attenzione e solidarietà concreta della Chiesa cattolica verso questa tragedia e le sue vittime. Percorso che inizia fin dai primi mesi della persecuzione attuata dal Governo dei Giovani Turchi, come testimonia padre Georges Ruyssen S.I., docente presso il Pontificio Istituto Orientale, autore della monumentale opera di raccolta di documenti storici La Santa Sede e i massacri degli armeni (ed. Orientalia Cristiana). ZENIT lo ha intervistato prima della Messa del Santo Padre.
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Padre Ruyssen, a cosa è dovuto il Suo interesse per questo tema?
La mia formazione è di canonista, non sono dunque né uno storico né un archivista. Pertanto il mio interesse per la questione del Genocidio Armeno nasce per altri motivi. Risale al 2001, quando studiavo a Ginevra al Concilio ecumenico delle Chiese. È lì che conobbi un diacono armeno ortodosso, oggi sacerdote a Marsiglia, con il quale divenni amico rimanendoci in contatto anche una volta tornato a Roma. Poi, nel 2007, trovando un momento in cui avevo più tempo a disposizione, decisi di sviluppare questo mio nuovo interesse facendo qualche ricerca sui documenti della Santa Sede sul Genocidio Armeno. Mi chiesi se esisteva già un’edizione che raccogliesse questi documenti. Domandai allora a mons. Boghos Lévon Zékiyan (oggi arcieparca della Chiesa cattolica-armena a Istanbul, ma allora non ancora vescovo), il quale mi rispose che non era ancora uscito nulla in proposito.
Questa risposta La persuase ad occuparsene Lei?
Esatto. Allora andai all’Archivio segreto vaticano e iniziai a raccogliere documenti su questo tema. Il fatto che non fossi uno storico o un archivista mi penalizzò molto all’inizio, feci infatti diversi errori, occupandomi per molto tempo di documenti che non erano inerenti. Ci volle del tempo prima che assumessi le giuste competenze, ed ora conto di terminare questo progetto editoriale (che consta di 7 volumi) entro il dicembre 2015, che è l’anno del centenario del Genocidio Armeno.
Dalla Sua raccolta si evince che le persecuzioni turche verso gli armeni possono suddividersi in due diverse fasi…
Nei primi due volumi mi occupo dei cosiddetti massacri hamidiani (1894-96), in cui perirono centinaia di migliaia di persone in diverse regioni dell’Impero ottomano. Nella seconda parte, che è più sostanziale abbracciando cinque volumi del mio progetto, si va dai pogrom del 1908 e del 1909 al Genocidio del 1915. Anzi, in realtà i documenti raccolti (presso l’Archivio segreto vaticano, la Congregazione per le Chiese orientali e l’Archivio storico della Segreteria di Stato vaticana) arrivano fino al 1930, poiché le lettere e le testimonianze su questo tema proseguono oltre la fine delle atrocità. Mi piace pensare al mio lavoro come a un tassello di un grande puzzle: personalmente mi sono occupato dei documenti vaticani, altri si sono occupati dei documenti, ad esempio, del ministero degli Esteri della Francia, degli Stati Uniti, dell’Italia, etc… Se si mettono insieme questi lavori, si ha un quadro completo del contesto diplomatico intorno al Genocidio Armeno.
All’inizio le notizie erano poche e frammentate; quando si arrivò a comprendere l’entità di ciò che stava avvenendo a discapito degli armeni?
Ufficialmente il genocidio inizia il 24 aprile 1915, con l’arresto e la deportazione di 300/400 armeni a Costantinopoli. All’inizio sembra un episodio ordinario di repressione turca contro l’ennesima rivolta rivoluzionaria armena. Infatti mons. Angelo Maria Dolci, delegato apostolico a Costantinopoli, interpreta gli eventi in questo senso. Egli inizia tuttavia a capire che si tratta piuttosto di una vera e propria deportazione di massa nel luglio ‘15, quando in un telegramma fa sapere in Vaticano che “giungono sicure notizie che centinaia di armeni, tra i quali molte famiglie cattoliche, si sottraggono alla persecuzione facendosi musulmani. Voci di massacri veri e sparsi accentuano questo movimento…”. È in questo momento che si comprende ciò che sta realmente accadendo nell’Impero ottomano. Il rapporto del 28 agosto 1915 è quindi molto chiaro: “Orrori raccapriccianti sono stati commessi da questo Governo ai danni di armeni innocenti all’interno dell’Impero. In alcune regioni sono stati massacrati, in altre deportati in luoghi incogniti per farli morire di fame durante il tragitto. Madri hanno venduto i figli per sottrarli a certa morte. Lavoro incessantemente per arrestare queste barbarie”.
Appunto, quale fu il lavoro della Santa Sede per “arrestare queste barbarie”?
In un primo momento, si prova a salvare la vita almeno ai cattolici. Mons. Dolci chiede al Gran visir (primo ministro dell’Impero ottomano, ndr) di risparmiare i cattolici facendo tornare quelli già arrestati nelle loro terre. Più tardi, la Santa Sede si rende conto dell’entità del massacro e smette di fare distinzione tra cattolici, protestanti e ortodossi armeni perseguitati. La data spartiacque in tal senso è il 10 settembre 1915, quando papa Benedetto XV invia una lettera al Sultano con queste parole: “Ci strazia l’animo, Ci giunge pure dolorosissimo l’eco dei gemiti di tutto un popolo, il quale nei vasti domini ottomani è sottoposto ad inenarrabili sofferenze. La Nazione armena ha già veduto molti dei suoi figli mandati al patibolo, moltissimi tra i quali non pochi ecclesiastici ed anche qualche Vescovo, incarcerati o inviati in esilio”. E ancora: “Noi crediamo, Sire, che tali eccessi avvengono contro il volere del Governo di Vostra Maestà. Ci rivolgiamo pertanto, fiduciosi a Vostra Maestà ed ardentemente La esortiamo di volere, nella Sua magnanima generosità aver pietà ed intervenire a favore di un popolo”.
E come rispose il Governo turco?
La risposta del Sultano arriva due mesi dopo. Egli, premettendo di avere sentimenti “sempre pacifici”, afferma di esser stato costretto ad intervenire “non per ambizioni di conquista” ma “unicamente per difendere l’integrità del mio Impero contro i suoi nemici”. Il suo timore è che gran parte del popolo armeno possa schierarsi dalla parte dei russi, poiché già a fine Ottocento le prime istanze indipendentiste armene ricevono il sostegno di Mosca proprio in chiave anti-turca. Questo è il pretesto per perpetrare l’eccidio verso vecchi, bambini, decrepiti, sacerdoti, suore…
Papa Benedetto XV in questa lettera parla già di “Nazione armena”. Un riconoscimento di fatto da parte della Santa Sede?
Tre giorni prima della fine della Prima guerra mondiale, l’8 novembre 1918, papa Benedetto XV manda una missiva al presidente statunitense Thomas Wilson in cui affronta due temi: l’indipendenza polacca e l’indipendenza armena. Il Pontefice ritiene che la Nazione armena, avendo subìto tanti orrori, merita la creazione di uno Stato indipendente. Ma vale la pena citare anche la nota di pace che Benedetto XV scrive il 1° dicembre ’17, dove esplicitamente menziona le questioni territoriali da risolvere dopo la guerra, “nominatamente quelle relative all’assetto dell’Armenia, degli Stati Balcanici e dei paesi formanti parte dell’antico Regno di Polonia”.
Come è stato possibile che dinanzi a un genocidio durato così a lungo non si registrarono veementi proteste da parte del consesso delle Nazioni cosiddette democratiche?
Questa domanda mi dà modo di sottolineare che l’opera per la pace di Benedetto XV è oggi fin troppo taciuta. In quegli anni fu l’unico sovrano e l’unico capo religioso a protestare pubblicamente presso il Sultano contro questo massacro. Gli altri capi di Stato, che pur sapevano quanto stava accadendo poiché tutti i giornali internazionali ne parlavano, non intervennero. Il 12 marzo 1918 scrisse una nuova lettera per scongiurare il Sultano a fermare i massacri appena iniziati all’interno della regione caucasica, rioccupata dai turchi dopo la pace di Brest-Litovsk con il nuovo regime comunista in Russia.
Come interpreta il modo in cui la Turchia, oggi, si approccia a questo tema così scottante?
La Turchia continua a far risalire la sua argomentazione a quella con cui il Sultano rispose alla lettera di Benedetto XV: l’intervento fu necessario per impedire che le spinte rivoluzionarie e indipendentiste armene smembrassero l’Impero ottomano. Storicamente questo ha dei riscontri, ma fu tuttavia usato a pretesto per massacrare un intero popolo. Oggi dei piccoli passi iniziano ad essere mossi: su tutti, mi riferisco a dei simposi che nel 2014 si sono tenuti a Istanbul sugli armeni convertiti coercitivamente in quegli anni all’Islam, la cosiddetta “strage spirituale”. Significativo, inoltre, che l’ultimo film sul Genocidio Armeno, Il Padre (The Cut), sia stato realizzato dal cineasta turco Fatih Akin. Ma vorrei dire una cosa anche riguardo l’atteggiamento degli armeni…
Prego…
Essi a giusto titolo anelano al riconoscimento ufficiale del Genocidio da parte della Turchia, però devono evitare di fare polemica, che non giova. Io credo nella politica dei piccoli passi, e mi chiedo quanto l’affrontare con troppa passione questi temi porti beneficio alla causa del riconoscimento del Genocidio Armeno. Sullo scopo siamo tutti d’accordo, però sul metodo possono esserci divergenze.
Come interpreta, invece, l’atteggiamento di papa Francesco rispetto al centenario del Genocidio, ossia la scelta di celebrarlo con una Messa solenne a San Pietro il 12 aprile?
Si tratta di un piccolo, importante passo. Il quale fa seguito a quello avvenuto in un’udienza privata al Patriarca armeno-cattolico del giugno 2013, quando il Papa ha riconosciuto il massacro degli armeni come il primo genocidio del ventesimo secolo. Se il Pontefice usasse il termine genocidio in questo mese, in un evento pubblico nel corso del centenario, sarebbe un passo molto significativo. Così come significativi sono stati la scelta di celebrare una Messa solenne e il processo di beatificazione di mons. Mikael Khatchadourian, Vescovo di Malatya, uno dei cinque vescovi martiri del Genocidio Armeno, strangolato con la catena della sua croce pettorale. Una morte in odium fidei.