“In principio” era il tema con cui la Santa Sede faceva il suo debutto lo scorso anno alla Biennale di Venezia. Quest’anno ritorna anche per la 56° edizione e lo fa cominciando sempre dalle origini. Solo che questa volta non è il “principio” del racconto biblico della Genesi di creazione, ricreazione e redenzione, bensì quello contenuto nel prologo di Giovanni del Nuovo Testamento, “In principio, la parola si fece carne”.
È, cioè, quel Lògos a cui Goethe nel suo Faust diede quattro diverse traduzioni, tutte valide, contenuto in un brano che, al di là della valenza teologica, rappresenta “uno dei capolavori della letteratura mondiale”, come ha ricordato il cardinale Gianfranco Ravasi.
Proprio il porporato, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, è il commissario del padiglione che la Santa Sede presenta nella prestigiosa rassegna. Esso si avvale dello scrupoloso lavoro di un comitato scientifico – dove figurano anche i nomi di padre Antonio Spadaro e di Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani -, capitanato da Micol Forti, appassionata storica d’arte e curatrice della collezione di arte contemporanea degli stessi Musei del Papa.
Sia Ravasi che Forti erano presenti oggi in Sala Stampa vaticana ad illustrare ai giornalisti questa seconda presenza del Vaticano all’evento lagunare. Una presenza “che la prima volta è una festa, la seconda è una convinzione”, ha sottolineato il presidente della Biennale Paolo Baratta, anch’egli al tavolo dei relatori.
Soprattutto, però, la seconda volta della Santa Sede vuole essere un’occasione per rinvigorire il dialogo tra arte e fede – “sorelle tra di loro, profondamente unite”, ha detto Ravasi – che nel passato ha dato frutti fecondi producendo le massime eccellenze, specie a Roma, ma che nel secolo scorso è andato un po’ “frantumandosi”.
Il desiderio è quindi di riuscire a “ritessere” questo legame, ha affermato il cardinale, in modo particolare attraverso “l’espressione dell’arte”, in ogni sua forma. Inclusa la musica, ambito in cui la Chiesa “ha segnato grandi svolte fondamentali. Pensiamo al monodico gregoriano, alla polifonia…”.
A parere del presidente del Dicastero per la Cultura questo impegno “non è un impegno, da principi rinascimentali”, ma una missione di stretta attualità, che combacia con quella idea di ‘Chiesa in uscita’ pregnante il pontificato di Papa Francesco. Secondo Ravasi, infatti, “anche la bellezza deve essere data ai poveri, non soltanto il cibo. Come recita quel bel proverbio indiano: ‘Se tu hai due pani, uno lo dai al povero, l’altro lo vendi e acquisti un fiore di giacinto e lo dai al povero’”.
In tal senso, ha evidenziato il cardinale, il lavoro del Pontificio Consiglio per la Cultura “è un atto religioso, non solo di promozione artistica”, ovvero la “celebrazione del tentativo dell’artista di squarciare l’immediato, il contingente, il relativo per andare verso l’assoluto, l’infinito”.
Una bella responsabilità dunque per i tre artisti scelti a rappresentare la Santa Sede alla Biennale, peraltro diversissimi tra loro per età, provenienza, esperienza e linguaggi artistici.Si tratta di Monica Bravo, colombiana giramondo, “affascinata dalla parola come valore di origine”, che presenta una installazione con sei pannelli differenti. Opere digitali lavorate “quasi manualmente” che ritraggono immagini di natura, sovrapposte da leggerissime forme geometriche sulle quali sono proiettate le parole del Vangelo di Giovanni.
Poi Elpida Hadzi Vasileva, macedone, artista “di scarto”, specializzata nella lavorazione di elementi organici, quali pelli di animali, intestini, piume, squame, bozzoli… Con lei “la materia è trasfigurata”, prendendo le distanze dalla “tradizione dell’arte di scarto, del brutto”, ma creando “tessuti altamente poetici ed evocativi”. Come l’enorme tenda realizzata per la Biennale, appunto, “una sorta di grande merletto” montato su materiali plastici che in un gioco di cordami di diverso colore, che simboleggia la contaminazione tra diverse culture, “avvolgono il visitatore” e lo invitano “a entrare in contatto con una nuova pelle con cui l’opera prende forma”.
Infine Mario Macilau, dal Mozambico, con i suoi appena 30 anni il più giovane del trio. Esordiente e promettente fotografo, egli concentra la sua opera su ciò “che noi non vogliamo vedere, che sta ai margini, lontano dalle nostre case, che non assomiglia ai nostri gesti”, ha spiegato Micol Forti. Foto, cioè, di immensi paesaggi che in realtà sono discariche, gesti di preghiera che sono l’ultima speranza di gente disperata, bambini che lavorano quando dovrebbero giocare. Nel padiglione vaticano, in particolare, Macilau porterà un progetto su ragazzi di strada, adolescenti lontani da famiglie, nelle periferie della società. “Non è un reportage – ha precisato la curatrice -, ma foto che hanno capacità poetica, potenza di distacco per ‘cavare l’eterno dal contingente’, come diceva Baudelaire”.
Tre artisti di tre mondi apparentemente distanti tra loro, ma la scelta non è stata casuale, ha evidenziato Forti: “Sono sguardi e punti di vista diversi, dove il portato culturale diventa vita attiva e occasione di confronto ma anche di scontro”. “Abbiamo rischiato”, prosegue, “abbassando l’età e affiancando a figure mature e solide, artisti che affrontano la Biennale per la prima volta, con tutto il portato di emozione e inesperienza”.
Un rischio che però valeva la pena correre “se questa Biennale in qualche modo agevolerà ad aprire il nostro vedere, ad aprire la nostra e la vostra curiosità, a dilatare gli orizzonti”, ha detto la curatrice. E in quest’ottica ha ringraziato calorosamente gli sponsor per aver sostenuto i costi del padiglione – circa 400mila euro – nella convinzione che “riflettere sulla cultura vuol dire investire nel futuro”.
Tra le novità del padiglione un apposito account Twitter e una App per scaricare il materiale su smartphone e tablet.