ZENIT lo ha chiesto adon Roberto Spataro, segretario della Pontificia Accademia Latinitatis e docente all'Università Pontificia Salesiana.
Si parla tanto del dinamismo di Don Bosco, un po’ meno della sua spiritualità e della sua intensa vita religiosa. Alcuni raccontano che quando celebrava messa durante la consacrazione piangeva. Può aiutarci a conoscere di più la spiritualità di quest'uomo santo?
Don Bosco è un prete tipicamente “postridentino”, ossia un prete dedito alla salus animarum con una potente vita interiore, alimentata da una pietà sostanziosa e regolare: messa quotidiana, confessione settimanale, visita quotidiana all’Eucaristia, devozione mariana, soprattutto con il Rosario, venerazione per i santi, frequenti giaculatorie. Don Bosco si è formato certamente in Seminario, a Chieri, ma un impatto fortissimo sulla sua identità sacerdotale è stato costituito dai tre anni che ha trascorso, subito dopo l’Ordinazione sacerdotale, al Convitto ecclesiastico di Torino, sotto la direzione spirituale di san Giuseppe Cafasso. Lì ha impostato robustamente l’organizzazione della sua vita interiore. Con il passare degli anni, arricchito anche da carismi soprannaturali, la sua anima si è sempre più concentrata e raccolta in Dio. Se ne accorse anche don Achille Ratti, il futuro Pio XI, che visitando l’Oratorio di don Bosco, negli anni in cui l’opera salesiana conosceva un’espansione rilevante, rimase rapito dallo spirito contemplativo di don Bosco. Ecco le parole di Pio XI, pronunziate a distanza di molti anni da quell’incontro: “Era presente a tutto, affaccendato in una ressa continua, assillante di affanni, tra una folla di richieste e di consultazioni, e aveva lo spirito sempre altrove, sempre in alto, dove il sereno era imperturbato sempre, dove la calma era sempre dominatrice e sovrana, così che in lui il lavoro era proprio effettiva preghiera, e si avverava il grande principio della vita cristiana: qui laborat orat. Si sarebbe detto che il suo pensiero era altrove, ed era veramente così: era altrove, con Dio, in ispirito di unione, ma poi, eccolo a rispondere a tutti: e aveva la parola esatta per tutto e per se stesso, così proprio da meravigliare: prima infatti sorprendeva, e poi davvero meravigliava”. Pensi che, durante il processo di beatificazione, che fu abbastanza irto di ostacoli, fu avanzata anche questa obiezione: “Ma don Bosco, quando pregava?”. E la “controdomanda”, che confutò l’osservazione, la diede proprio Pio XI: “Ma don Bosco, quando non pregava?”.
Sì, don Bosco è stato un mistico, anche se abbiamo una scarsa documentazione su questo punto. Infatti, da buon piemontese, era gelosissimo della sua vita interiore. Lasciava trapelare ben poco nei suoi scritti e nelle relazioni che intratteneva. La santità di don Bosco era così intrecciata di vita ordinaria, senza mai essere ostesa, da essere colta solo dalle anime più sensibili e capaci di vibrare per le cose di Dio. Chi gli era vicino o aveva avuto occasione di incontrarlo, se dotato di un particolare intuito, riceveva l’impressione che, dietro quella normalità, si nascondesse qualcosa di più profondo.
Tali furono ad esempio le impressioni della Marchesa Barolo, che aveva rilevato in lui “quell’aria di raccoglimento e di semplicità propria delle anime sante”, che gli aprirono le porte delle sue opere. Tale fu la profonda sensazione di Maria Santa Domenica Mazzarello a Mornese; incontrando don Bosco per la prima volta esclamò: “Don Bosco è un santo e io lo sento”. Il Beato Michele Rua, che gli fu accanto per quasi 40 anni, suo primo successore, confessava di essere più impressionato dall’osservarlo anche nelle azioni più piccole che non leggere o meditare qualsiasi libro devoto.
Basti pensare al modo con cui don Bosco celebrava la Santa Messa. Questa è la testimonianza del suo biografo che parla di ciò che ha visto in prima persona. Si tratta di don Lemoyne. L’italiano è quello arcaico, di fine Ottocento: “Abbiamo assistito tante e tante volte alla sua Messa, ma in quel frattempo sempre s’impossessava di noi un soave sentimento di fede, nell’osservare la divozione che traspariva da tutto il suo contegno, la esattezza nell’eseguire le sacre cerimonie, il modo di pronunciare le parole e l’unzione onde accompagnava le sue preghiere. E l’edificante impressione ricevuta non cancellavasi mai più. Ovunque andasse, eziandio fuori d’Italia, il sapersi l’ora e il luogo dove don Bosco celebrava, bastava per radunare gente intorno al suo altare”.
Lei come lo ha scoperto?
Ah, che bella domanda! Mi fa tornare indietro nel tempo. Anno 1977, sabato pomeriggio al principio dell’autunno. Lo ricordo come oggi. Dodicenne, entro per la prima volta, un po’ intimidito, nell’oratorio salesiano di Potenza e vengo accolto come se fossi atteso da tempo. Sono subito coinvolto e attratto in un movimento di attività: gioco, formazione cristiana, associazionismo, sport, teatro, volontariato (allora, non si chiamava ancora così). In poco tempo, scopro che all’origine di questa felicissima esperienza che accompagna la mia crescita, c’è don Bosco. Tutti lo chiamiamo così: salesiani, educatori, ragazzi, genitori, insomma gli “abitanti” che popolano un ambiente salesiano. Imparo a conoscerlo e, conoscendolo, non posso non amarlo. Lo sento vicino a noi. Certo, leggo la sua biografia e altri libri che illustrano la sua personalità, ma don Bosco l’ho scoperto, giorno dopo giorno, nell’ambiente salesiano che ho frequentato, attraverso la testimonianza e l’impegno degli educatori che si ispirano a lui, salesiani indimenticabili, molto diversi tra loro per età, sensibilità, capacità, ma tutti riproduzione fedele dell’amore pedagogico di don Bosco per i ragazzi. Sono stato attirato da lui, come se fosse stato una calamita.
Quanto ha inciso il carisma di Don Bosco nella sua vocazione?
Moltissimo. A tredici anni, lo ricordo benissimo, ho iniziato a desiderare di diventare prete. Mi identificavo con il modello “donboschiano” di prete, operosamente apostolico, cordialmente sorridente, proprio come i salesiani che incontravo e che mi accompagnavano sapientemente. Con il passar del tempo, quando ho cominciato a comprendere che quel mio desiderio era in realtà una “vocazione”, non ho mai avuto dubbi: prete salesiano, con don Bosco.
In particolar modo, c’è un’attività che mi ha aiutato non poco nel discernimento vocazionale: il servizio all’altare. In oratorio, i salesiani portavano avanti un itinerario vocazionale che risale a don Bosco stesso: l’amore per la liturgia e il gruppo del “piccolo clero”, come si diceva una volta. Don Bosco è stato, a suo modo, un antesignano del movimento liturgico e ha sollecitato l’actuosa participatio dei ragazzi. La cura del “piccolo clero” ha sempre caratterizzato le comunità salesiane e si è sempre rivelato una schola vocationis. Mi consenta, a questo proposito, di esprimere l’auspicio che nelle comunità ecclesiali non si sottovaluti mai questa forma di educazione vocazionale e che, per tal motivo, il servizio all’altare sia riservato ai ragazzi.
Gli anni sono passati, sono andato in noviziato, ho proseguito la mia formazione e ho scoperto un altro aspetto della santità sacerdotale di don Bosco: la profondità della sua vita spirituale. Un libro che ha inciso moltissimo sulla mia maturazione è stato un volumetto, intitolato Don Bosco. L’unione con Dio. La definizione è del Cardinal Alimonda, l’Arcivescovo di Torino che ha consolato con il suo affetto gli ultimi anni trascorsi da don Bosco su questa terra. L’autore del libro è don Eugenio Ceria, uno dei migliori biografi di don Bosco, che ebbe modo, tra l’altro, di conoscere. Ho capito, così, che ispirare il proprio sacerdozio a don Bosco significa diventare un’anima orante.