Parte da un’immagine celeberrima, la predica di padre Raniero Cantalamessa per il Venerdì Santo, tenuta oggi nella basilica di San Pietro. Prendendo spunto dal dipinto dell’Ecce homo, realizzato dal fiammingo Jan Mostaert nel XVI secolo, il predicatore della Casa Pontificia descrive tutta la crudezza degli istanti che precedono la Crocifissione.
Con il capo coronato di spine e la “bocca semiaperta”, Gesù “fa fatica a respirare” e subisce dai soldati la “crudele parodia della sua regalità”. Coperto da un “mantello pesante e consunto, più simile a latta che a stoffa”, il Nazareno “è l’uomo ridotto all’impotenza più totale, il prototipo di tutti gli ammanettati della storia”.
Come afferma Blaise Pascal, “Cristo è in agonia fino alla fine del mondo”: secondo Cantalamessa, Egli è in agonia “in ogni uomo o donna sottoposti agli stessi suoi tormenti”, ovvero negli “affamati”, nei “nudi”, nei “maltrattati” e nei “carcerati” (cfr. Mt 25,40).
L’esclamazione “Ecce homo”, tuttavia, “non si applica solo alle vittime, ma anche ai carnefici” e ci ricorda “di che cosa siamo capaci noi uomini”.
Pur non essendo “le sole vittime della violenza omicida che c’è nel mondo”, in molti paesi, i cristiani sono “le vittime designate e più frequenti”. Ancora oggi, nella Pasqua 2015, ci sono migliaia di cristiani perseguitati, come sotto l’Impero Romano: “Rischiamo di essere tutti, istituzioni e persone del mondo occidentale, dei Pilati che si lavano le mani”, ha commentato Cantalamessa.
Quando poi viene inchiodato in Croce, Gesù dice: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34). Questa preghiera non è sussurrata ma “gridata” e “perentoria”; poiché il Figlio ha affermato che il Padre ascoltava ogni sua preghiera (cfr. Gv 11,42), è poi legittimo credere che anche “i crocifissori di Cristo sono stati perdonati da Dio (certo, non senza essersi prima, in qualche modo, ravveduti) e sono con lui in paradiso, a testimoniare per l’eternità fin dove è stato capace di spingersi l’amore di Dio”.
Ai suoi aguzzini, Gesù “adduce la scusante dell’ignoranza”, per non sapere di aver messo in croce “un uomo che era realmente Messia e Figlio di Dio”. Inoltre, “invece di accusare i suoi avversari, oppure di perdonare affidando al Padre celeste la cura di vendicarlo, egli li difende”.
Il perdono di Cristo è l’esempio di una “generosità infinita” che non si limita alla semplice “rinuncia a volere il male per chi fa del male” ma “deve tradursi invece in una volontà positiva di fare loro del bene, se non altro con una preghiera rivolta a Dio, in loro favore”.
Gesù, con la sua morte, procura agli uomini la “grazia” di diventare “capaci di perdonare”: il suo non è un mero “insegnamento sulla misericordia” ma un modo per permettere che dalla sua morte scaturiscano “fiumi di misericordia”, da cui si potrà attingere “a piene mani” nell’Anno Giubilare imminente.
La sequela di Cristo, tuttavia, non è un “votarsi passivamente alla sconfitta e alla morte” ma un invito al “coraggio” nell’attendere la “vittoria definitiva del bene sul male”, che “si manifesterà alla fine dei tempi” ed è “già avvenuta, di diritto e di fatto, sulla croce di Cristo”. Al punto che il centurione romano, testimone della sua morte (cfr. Mc 15,39), riconosce subito che il grido emesso da Gesù spirando (cfr. Mc 15,37) è un “grido di vittoria”.
Di seguito, il predicatore della Casa Pontificia chiarisce il tema della violenza a sfondo religioso, che l’Antico Testamento sembrerebbe giustificare attraverso numerose “storie di violenza” – pena di morte compresa – ed espressioni come “il Signore degli eserciti”.
Anche in questo caso, come nella controversia sul divorzio (cfr. Mt 19,8) Gesù rammenta che “al principio non era così”, tanto è vero che, fin dal primo omicidio della storia umana, Dio proclama illegittimo “vendicare la morte di Abele” (cfr. Gn 4,15).
Anche San Paolo parla di un tempo caratterizzato dalla tolleranza di Dio (cfr. Rm 3,25) nei confronti, ad esempio, della “poligamia” e del “divorzio” ma giungerà “un tempo in cui il suo piano originario verrà ‘ricapitolato’ e rimesso in onore, come per una nuova creazione”.
Gesù ha anche predicato l’amore per i nemici e la preghiera per i persecutori (cfr. Mt 5,38-39;43-44), tuttavia, secondo Cantalamessa, il “vero discorso della montagna” è quello che “proclama ora, silenziosamente, dalla croce”, affermando un ‘no’ alla violenza che non è semplice “non-violenza” ma “perdono”, “mitezza” e “amore”.
Un ultimo pensiero, Cantalamessa lo rivolge ai “veri martiri di Cristo”, coloro che “non muoiono con i pugni chiusi, ma con le mani giunte”, come è avvenuto per i 21 copti uccisi dall’ISIS in Libia, lo scorso 22 febbraio, “mormorando il nome di Gesù”. Per loro e per “tutti gli Ecce homo che ci sono, in questo momento, sulla faccia della terra, cristiani e non cristiani”, il predicatore della Casa Pontificia rivolge la sua preghiera finale.
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Il testo integrale della predica è disponibile qui.