In un articolo tra il serio e il faceto apparso di recente sul quotidiano Il Foglio, Stefano Pistolini affrontava un aspetto solitamente trascurato delle odierne relazioni fra Stati Uniti e Federazione Russa: la contraddittoria popolarità di cui gode negli USA Vladimir Putin (1). A parte gli aspetti più umoristici, relativi a una presunta voglia di «uomo forte» che Putin incarnerebbe provocando le simpatie di un certo elettorato statunitense, il giornalista toccava un punto molto interessante, ossia il giudizio positivo sul Presidente russo da parte di un movimento politico-culturale importante, ancorché poco conosciuto in Europa: il cosiddetto «paleoconservatorismo». Assai diversi, come il nome stesso suggerisce, dai neoconservatori che hanno dominato l’era di George W. Bush, ma anche dai liberal progressisti, i paleoconservatori USA animano una serie di riviste di buona levatura quali The American Conservative, Chronicles Magazine, The American Cause (2).
Le posizioni di questo movimento non rientrano nel bipolarismo fra Democratici e Repubblicani, pur essendo teoricamente più vicine a questi ultimi. In politica estera i paleoconservatori sono i più ferrei critici dell’interventismo a stelle e strisce nel mondo e del sostegno incondizionato a Israele, predicando un disimpegno geopolitico che riservi agli USA il ruolo di potenza regionale. In ambito economico accompagnano un marcato antistatalismo all’affermazione di posizioni «distributiste», richiamando le teorie di grandi scrittori britannici di inizio Novecento quali Hilaire Belloc e Gilbert K. Chesterton. In nome della sussidiarietà, sono inoltre fautori di un forte decentramento dei singoli Stati rispetto al centro federale; manifestano ovviamente posizioni a tutela del diritto naturale sui temi etici e una prevalente, benché non esclusiva, adesione al Cattolicesimo. Su altre questioni, quali ad esempio il libero porto d’armi e la gestione dell’immigrazione, rivelano invece un’attitudine più nel solco della destra repubblicana.
Patrick J. Buchanan è forse il più noto esponente del paleoconservatorismo odierno. Ex consigliere di Nixon e Reagan, segnalatosi poi per una critica mordace alla politica di George W. Bush (nella quale accusava i neocon di deformare l’autentico esprit conservateur), Buchanan è molto severo con Barak Obama e di recente ha apertamente apprezzato l’operato di Putin per la sua difesa dei valori tradizionali e per il multipolarismo russo in politica estera (3). In un’intervista al canale Russia Today, richiamando le sprezzanti parole con cui Obama aveva qualificato la condotta di Putin in Crimea, ha persino affermato: «Sono anch’io dal lato sbagliato della storia» (4). Anche se le loro idee non appaiono sempre condivisibili, conoscere meglio i paleoconservatori è dunque importante per comprendere su quali margini politico-culturali potrebbe far leva un rinnovato dialogo fra Stati Uniti e Russia, nonché per contrastare quell’antiamericanismo estremista che identifica negli USA una specie di Leviatano da cui dipendono sempre e comunque tutti i mali dell’universo.
Il referente teorico del paleoconservatorismo è il filosofo cattolico Russel Amos Kirk (1918-1994), autore peraltro di una delle opere sulla cultura conservatrice forse più importanti del Novecento, The Conservative Mind. From Burke to Santayana (Chicago 1953). In un altro celebre lavoro, tradotto in italiano con il titolo Le radici dell’ordine americano, Kirk cercò di trovare un legame tra l’appartenenza confessionale alla Chiesa cattolica e quella civile agli Stati Uniti, sostenendo che il fondamento storico della società nordamericana fossero le fonti classiche e cristiane della tradizione europea (5). Sul piano storiografico questa tesi, che vede negli USA la prosecuzione oltreoceanica dell’Europa prerivoluzionaria in grado di conciliare il progresso tecnico ed economico con i valori morali tradizionali, non è convincente. È vero che nel loro processo di formazione gli Stati Uniti furono immuni dallo spirito antireligioso e dal nazionalismo etnico dell’Europa delle rivoluzioni. Ma a differenza dell’Europa, dove le tradizioni contro cui fu issata la bandiera della Rivoluzione erano radicate in millenni di storia, la fondazione stessa degli USA rappresentò già in sé un significativo distanziamento geo-culturale.
Nello sviluppo storico degli Stati Uniti, gli elementi di rottura rispetto alla tradizione europea risultano cioè molto più incisivi delle linee di continuità: sul piano istituzionale, a motivo di quell’orgogliosa rivendicazione della democrazia repubblicana contro la Vecchia Europa monarchica e dinastica; su quello confessionale, non solo per la prevalenza dell’elemento protestante e la nettissima opposizione al «papismo» romano, ma anche per quella religione civile in cui tutti i culti si equivalgono all’altare del patriottismo civico; sul versante economico, a causa della valorizzazione dell’individuo e di una certa industriosità «marittima» contro l’Europa figlia della cultura della terra e delle corporazioni medievali; nell’ambito più ampiamente culturale, per via di quello slancio verso il «nuovo» preminente sul rispetto delle consuetudini. Per questi motivi, d’altronde, la categoria di «Occidente» con cui è d’uso accomunare la civiltà e la parabola storica di Europa e Stati Uniti appare del tutto impropria.
Al tempo stesso, non si deve sottovalutare quella nostalgia d’Europa che ha accompagnato tutta la storia statunitense. Già Alexis de Tocqueville, nella celeberrima Democrazia in America, notava un forte bisogno di radicamento e di ordine, una presenza di elementi solidaristici e comunitari, cogliendo in ciò un bilanciamento dell’individualismo liberale più che opportuno per garantire le istituzioni democratiche attraverso una base valoriale condivisa. Proprio il paleoconservatorismo costituisce uno dei segmenti della cultura statunitense più affini alla tradizione europea. Il suo rafforzamento sulla scena politica USA, ove oggi risulta debole e frazionato malgrado un’intensa attività intellettuale, potrebbe aprire un dibattito fecondo su almeno due fronti.
Sul piano geopolitico, le idee dei paleoconservatori sono abbastanza in linea con un’evoluzione multipolare necessaria a gestire con maggiore equità le crisi internazionali. Inoltre, esse favorirebbero i rapporti con la Russia attraverso un dialogo di civiltà che risponda al bisogno trasversale d’una buona cultura politica in un mondo che ha preteso di decretare la «fine delle ideologie», la «fine della fede» e quindi la stessa «fine della storia» (6). Thomas Molnar (1921-2010), filosofo ungherese tanto geniale quanto trascurato, aveva compreso che il più grande ostacolo in questo senso è la difficoltà cronica di attualizzare in modo persuasivo i valori della ragione e della tradizione nella società di massa senza scadere nel ridicolo e nella caricatura (7). Quella difficoltà, soprattutto comunicativa e organizzativa, di sottrarre la cultura della tradizione all’accusa di anacronismo retrogrado sempre arroccato in difesa, e di convincere l’opinione pubblica che l’autentico sviluppo – morale, economico, civile – procede dalla continuità con il passato e non da fratture e rivoluzioni.
A quali istanze la tradizione è chiamata oggi a ridare linfa, negli USA non meno che in Russia e in Europa? Il nobile richiamo al dovere e alla responsabilità morale contro la banalità della trasgressione e del relativismo, il buon gusto e il senso del pudore in contrasto alla volgarità imperante, lo splendore del sacro e della fede religiosa come architravi su cui poggiare il senso ultimo dell’esistenza, la ragionevolezza quale antidoto al razionalismo tecnocratico e scientista, la ricchezza delle usanze popolari per bilanciare la massificazione del consumismo, la tutela dei poveri e degli indifesi come imprescindibile esigenza di giustizia, il rispetto verso l’autorità di cui la figura del Padre è insieme archetipo metafisico e in
veramento sociale. Se ben veicolati, tutti questi valori sono forse in grado di suscitare un’approvazione maggiore di quanto si creda, in quanto riflettono una vocazione universale che in forme diverse si ritrova in tutte le grandi civiltà della storia.
Il principio di tolleranza, che correttamente inteso significa realistica accettazione delle concrete imperfezioni umane e che però non toglie uno iota alla distinzione oggettiva tra bene e male, costituisce il corollario indispensabile per una diffusione di questi valori in democrazia. Come affermava il grande poeta angloamericano Thomas S. Eliot, l’obiettivo non è costruire un’irrealizzabile società di santi sussumendo la libertà del singolo nella dimensione collettiva, bensì ricercare assiduamente il fine naturale dell’uomo, avere il coraggio di riconoscerlo e permeare la vita civile d’uno spirito ad esso conforme nell’ancoraggio al senso comune e all’eredità storica (8). Il dibattito tra le migliori idee del paleoconservatorismo statunitense, della grande cultura russa e di quella europea potrebbe sostenersi su un patrimonio di intelligenze bimillenario e imperituro, che ha dalla sua parte Dante Alighieri, François-René Chateaubriand, Fëdor Dostoevskij e molti altri. All’eclissi dei valori assoluti, che da Nietzsche ai post-moderni si compendia nella «morte di Dio», la tradizione oppone con loro la verità storica e morale della sua Resurrezione.
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*Dario Citati è Direttore del Programma di ricerca «Eurasia» dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) [www.istituto-geopolitica.eu] e redattore della rivista Geopolitica [www.geopolitica-rivista.org].
NOTE
1) S. Pistolini, L’invidia maschia per Putin, «Il Foglio», 9/04/2014.
2) http://www.theamericanconservative.com, https://www.chroniclesmagazine.org, http://www.theamericancause.org.
3) Si veda ad esempio P. J. Buchanan, Is Putin One of Us? http://buchanan.org/blog/putin-one-us-6071, 17/12/2013; Id. Whose Side is God Now?, http://www.theamericancause.org/index.php?mact=News,cntnt01,detail,0&cntnt01articleid=1087&cntnt01origid=15&cntnt01returnid=29, 04/04/2014.
4) http://www.youtube.com/watch?v=lNIgqfazbqoD.
5) R. Kirk, Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, tr. it., Milano 1996.
6) Ci si riferisce ai noti pamphlet di D. Bell, The End of Ideology: on the exhaustion of Polical Ideas in the Fifties, New York 1962; F. Fukuyama, The End of History and the Last Man, News York 1992; S. Harris, The End of Faith: Religion, Terror, and the Future of Reason, New York-London 2004.
7) T. Molnar, La Contro Rivoluzione, tr. it., Roma 1971. Sul corretto rapporto Europa-Stati Uniti, si veda anche, dello stesso autore,L’Américanologie: Triomphe d’un modèle planetaire?, Lausanne 1991; sulla necessità dei valori della tradizione nel mondo contemporaneo, L’hégémonie libérale, Lausanne 1992, e Authority and Its Enemies, New Brunswick 1995.
8) T. S. Eliot, L’idea di una società cristiana, tr. it., Milano 1998.