Siamo alle porte di Gerusalemme, la Pasqua è ormai vicina, tra pochi giorni vi entreremo anche noi con Gesù. Vivremo il suo mistero Pasquale accogliendolo ancora nella nostra vita rinnovando le promesse battesimali.
Ma prima dobbiamo passare da Betania, che è come la “presentazione” del Libro sulla Pasqua: Gesù vi scrive le parole e vi compie i gesti con cui prepara e spiega l’opera che avrebbe compiuto di lì a poco a Gerusalemme.
A Betania c’è la malattia, e poi la morte, il dolore e le domande. A Betania c’è il limite di ogni vita, è come la riva su cui si arrestò la corsa di Mosè e del popolo, il mare oscuro dinanzi, i carri del faraone alle spalle. A Betania ci sei tu e ci sono io.
E vicino c’è Gesù. A un passo dalla “casa del povero afflitto” che è la tua famiglia, il tuo lavoro, la tua stessa vita, c’è un “amico” che “desidera ardentemente mangiare la Pasqua con te”. Tutto quello che accade nell’episodio del Vangelo scorre su questo desiderio incontenibile di Gesù di fare Pasqua con noi, di rivelare “l’amore più grande, dare la vita per i propri amici”.
E la vita si dà innanzitutto lasciando libero l’amico. Anche di morire. E questo Gesù fa quando sente che “Colui che Egli ama è infermo”. Gesù sa che la malattia dei suoi amici “non è per la morte, ma per la Gloria di Dio. Perché attraverso di essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Per questo “rimane due giorni nel luogo dove si trovava”.
Questo ci scandalizza, non riusciamo a comprendere come Dio possa, tante volte, non intervenire: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva far sì che costui non morisse?”. Dio non mi ascolta, quando serve il suo aiuto non c’è mai: ho perso il lavoro, mio padre è ammalato, e quella sera, non poteva far sì che mio figlio non avesse quell’incidente?
Per vivere la Pasqua abbiamo bisogno che queste domande vengano alla luce e scoprire che, proprio “restando” lontano, Gesù si fa più vicino che mai. Lui è l’amico che non ci abbandona mai, l’unico che, lasciandoci liberi, ci accompagna nei suoi esiti più dolorosi, nel limite che il male fissa alla nostra esistenza.
Gesù, infatti, non guarendo Lazzaro prima che morisse anticipa profeticamente il suo cammino verso il compimento del mistero pasquale. Gesù non tocca nulla, si umilia scendendo nella stessa impotenza di Lazzaro; lascia che muoia esattamente come farà con se stesso, nonostante le tentazioni del Getsemani e le parole provocatorie che gli avrebbero rivolto da sotto la croce.
E’ lì che “doveva” arrivare, nella verità che è la realtà di ogni cuore. Il suo cammino nelle “dodici ore del giorno” conduceva alla “notte” di Lazzaro e di ogni uomo. Doveva operare “finché c’era la luce”, per illuminare il senso della sua missione, rivelare profeticamente il destino che ci attende; e offrire a tutti noi la chiave per entrare “nella notte” camminando senza “inciampare” alla “luce” del “giorno” senza tramonto, la fede adulta radicata nella Pasqua.
E la chiave è una parola sconvolgente: “Lazzaro, il nostro amico si è addormentato. Ma io vado a svegliarlo”. Gesù offre così al Padre lo sguardo umano perché si posi su ogni Lazzaro illuminandolo di speranza. Come il Padre del figlio prodigo, Dio non ha mai smesso di guardare ogni uomo, anche il più grande peccatore, come la sua opera più bella.
La fede è entrare in questo fascio di luce che scaturisce dagli occhi di Gesù, lasciarsi abbracciare dallo scorrere veemente delle sue parole per giungere a guardare il limite, la morte, perfino il peccato che contrista lo Spirito e ricaccia l’uomo nella corruzione della carne, con gli occhi di Dio.
Ma per arrivare a questa fede occorre passare per la porta che ci separa da Gerusalemme, la stessa che ha varcato Gesù prima di giungere a Betania. E’ dove gli vengono incontro prima Marta e poi Maria. E subito lo affrontano con un’affermazione che è un embrione di fede chiuso nel bozzolo del dolore.
Questo abbozzo di fede delle sorelle è come un controllo dei passaporti, Gesù sta andando da Lazzaro ed esibisce il suo documento: “Io sono”, cioè il nome di Dio. Solo io posso scendere da Lazzaro perché solo “Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”.
Sulla soglia del più grande dolore, quell’amico svela finalmente la sua identità. E’ uomo, ma è anche Dio. La resurrezione si fa carne, ossa, sguardo e voce; è a un passo, non serve lanciarsi in un vuoto assurdo.
Sono amici, immagine della Chiesa che sempre si prende cura di noi; si sentono amate. Per questo, dicendo “Credi tu questo?” è come se chiedesse: “ti fidi ancora di me? Abbiamo mangiato, parlato, scherzato, sofferto, vissuto tante cose insieme. Mi avete accolto e sono diventato di casa. Ora è diverso, lo so; ora è accaduto l’irreparabile, ma se mi hai conosciuto un pochino, sai che puoi credermi”.
Con questo dialogo Gesù estrae dal bozzolo il seme di fede delle sorelle per poter passare alla risurrezione di Lazzaro: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”. La Chiesa che ci accompagna ha professato la fede, ora Gesù può “passare” e scendere da Lazzaro.
E comincia dicendo di fare una cosa che nessuno vorrebbe mai: “Togliete la pietra”. Ma come, “è morto da quattro giorni! Manda già cattivo odore”… da Quattro giorni e manda cattivo odore.
E’ carne in via di putrefazione come il nostro matrimonio, il nostro rapporto con I figli. Ma è necessario che la verità venga alla luce. Quell’odore è dove Cristo desidera ardentemente celebrare la sua Pasqua.
Per questo chiede alla Chiesa di togliere la pietra, di non aver paura di far uscire l’odore di morte, perché se non c’è questa consapevolezza perdura l’inganno, che è l’autostrada per precipitare nella morte ultima e definitiva.
E piange con noi lo spettacolo della nostra vita ridotta in macerie. Chi ha pianto con noi i nostri peccati? Nessuno! Li hanno giudicati, ci hanno fatto moralismi per indurci a liberarcene, ci hanno esclusi. Forse hanno pianto le conseguenze. Ma piangere gratuitamente, solo per raggiungerci con la misericordia, nessuno tranne Gesù e il suo corpo che è la Chiesa.
Per questo Dio si è fatto uomo: per poter piangere i nostri peccati! Ma come, aveva detto che dormiva e che sarebbe andato a svegliarlo, si era presentato come la risurrezione e la vita, aveva chiesto fede in Lui, e ora, davanti alla pietra, scoppia in pianto?
Bene, senza quelle lacrime non ci sarebbe stato il miracolo. Senza la sua umanità non ci sarebbe stata per noi la possibilità di rivestirci della natura divina. Dio si è dovuto piegare a quelle lacrime per liberarci dalla fonte di ogni lacrima.
Per ridestare Lazzaro doveva infondere il potere alle uniche parole che avrebbe ascoltato: quelle umanissime del dolore e delle lacrime. Lacrime che, come le acque del battesimo, giungevano a bagnare di misericordia quel morto, per abbracciarlo nella sua vita. “Lazzaro vieni fuori!”, ha gridato Gesù, come sulla Croce quando ha sperimentato l’abbandono, la solitudine di ogni peccatore.
E Lazzaro sente, perché dorme. E tu, hai parlato mai con un morto? No, ecco il punto, hai dato per scontate tante, troppe cose. Con tua moglie non parli più perché per te, dentro il tuo schema, è morta!
Non hai speranza, hai giudicato, hai chiuso l’altro nella tomba da quattro giorni; sai che manda cattivo odore. Ti ha insultato proprio un minuto fa. Si è fatto l’ennesima canna rubandoti i soldi. Sono dieci anni che tua cognata, quell’arpia, ha rapito tuo fratello e lo ha messo contro di te, per quel pezzettino di terreno, neanche le galline ci potresti tenere, ma è il principio, e quella strega per me è morta, ha distrutto la mia fa
miglia.
Invece l’amore dell’amico parla ai morti che mandano cattivo odore. L’amore autentico, infatti, ci vede tutti addormentati, non morti. Credere nella risurrezione è allora amare con l’amore di Cristo che ci ha risuscitati.
E’ aprire il sepolcro, togliere la pietra, lasciarsi avvolgere dal fetore dell’altro per gridarci dentro, perché le parole si facciano largo nelle conseguenze dei peccati, e annunciare le semplici parole di fede che ha detto Gesù: Amore mio, vieni fuori! So che dormi, so che mi puoi ascoltare, ti ho perdonato, puoi uscire allo scoperto, non hai nulla di cui vergognarti, ero lì anch’io mille volte e il Signore con misericordia mi ha destato strappandomi alla paura. Coraggio, non temere, puoi ricominciare con Lui.
Allora davvero ogni sepolcro della nostra vita diviene un “memoriale”, secondo la radice della parola in greco. Possiamo allora entrare nella Pasqua accostandoci ai peccati, alle sofferenze, alle situazioni più dolorose come a un memoriale, ai luoghi dove il Padre compie di nuovo il miracolo del mare, e ci introduce nella notte in cui ha risuscitato il Figlio.
Per questo chiediamoci “dove è stato posto” il fratello, e, in questa Pasqua, andiamoci con Cristo. Togliamo la pietra e gioiamo, alziamo gli occhi al Cielo e gioiamo con Lui perché il Padre ci dà sempre ascolto, aspetta solo la nostra fede per farci passare dalla morte alla vita, “slegare le nostre bende”, cioè perdonare i peccati, e “lasciarci andare” liberi nella vita nuova.