Feto: da una radice sanscrita fe- che significa l'atto di succhiare, e dal latino fetus che indicava il cucciolo, il germoglio. Si dice di essere vivente ancora nell'utero materno, ma senza una sostanziale differenza nella fisiologia dall'essere vivente già nato.
Realismo
Si dice feto il bambino prima della nascita; si distingue formalmente dall’embrione perché quest’ultimo livello corrisponde ai primi 2 mesi di sviluppo intrauterino. Il feto sente dolori, sapori e suoni sin dalla metà della gestazione, cioè dopo la 20° settimana di gravidanza.
La ragione
Chi è in realtà un feto? Era tale la coscienza in epoca romana che il figlio non ancora nato fosse un bambino che già allora poteva essere abilitato a ereditare dal padre premorto; e che, in caso di agonia materna, godeva del diritto di essere estratto dal ventre con intervento chirurgico in base alla lex Regia - poi denominata lex Caesarea, onde il termine di parto cesareo. Eppure a un certo punto della storia, si è deciso di usare i termini in modo restrittivo: "feto" solo per il figlio non ancora nato, e "bambino" dal parto in poi. Ma cosa cambia fisiologicamente col parto? In realtà ben poco: entra l'aria nei polmoni, si chiudono dei piccoli circuiti nel cuore, e si stacca la placenta. Allora perché usare in modo così stigmatizzante il termine "feto", quasi a significare che prima e dopo il parto si parla di due entità distinte? E, si badi bene, che si tratta di un termine particolare: in primo luogo non ha un maschile e un femminile, cioè la connotazione sessuale che individua la persona; poi ricorda semanticamente delle parole spiacevoli, quali "difetto", "fetore", "feticcio": l'ideale per significare un'entità aliena. In francese e in inglese si assiste addirittura a una comparsa del dittongo oe (foetus) che non era presente in latino, quasi a dare una "scientificità da laboratorio" e dunque una reificazione al termine. D'altronde anche il termine "embrione" ha subìto un destino simile, dato che in origine più che una parola era una specie di aggettivo che vuol dire "che fiorisce dentro" (en-brýein), il cui soggetto, evidentemente è "il bambino", in Omero "giovane animale". Certo, se si pensa che "embrione" è il figlio fino all'ottava settimana di sviluppo e che a quel livello già è presente il battito del cuore e i primi movimenti, ben si capisce quanto questo possa essere imbarazzante per chi usa l'embrione umano come materiale da ricerca.
Perché stigmatizzare? Nel 2005, la rivista Nature in un editoriale bacchettò i biologi che a un importante congresso proponevano di non usare più la parola "embrione", perché sostenevano che "suscitava emozioni troppo forti". Far sparire il termine embrione, continuava la rivista, "semmai esporrà gli scienziati all'accusa di tentare di prendere le distanze dai difficili problemi morali, cambiando i termini del dibattito". Certi brutti termini, lo sappiamo, servono a dividere e ad accentuare delle diversità; a sottolineare delle differenze di diritti, laddove non ci sono oggettive e scientifiche ragioni per un diverso trattamento: basta chiamare un'etnia con un termine dispregiativo per condizionare il modo di guardare a essa e trattarla.
Il sentimento
Il termine "feto", significa "cucciolo", cosa aderentissima all'evidenza scientifica, ma che oggi finisce col significare un'entità "non-ancora-persona", dunque con connotato nettamente negativo, tanto da far dimenticare spesso che stiamo parlando di un bambino; di uno di noi. Non si tratta di rivoluzionare il vocabolario, ma di riprendere a chiamare le cose col loro nome, di chiamare "bambino" un bambino, seppur non ancora nato; perché nel nome che diamo sta il giudizio che ne abbiamo; proprio come 500 anni fa insegnava Leonardo da Vinci, padre della scienza moderna, maestro della ricerca sulla vita dell'uomo non ancora nato.
Link esterni:
Sviluppo fetale