È il più lungo documento (220 pagine) nell’intera storia delle encicliche e delle esortazioni apostoliche pontificie. Perché, con l’esortazione Evangelii gaudium, Papa Francesco – che ci ha abituati alla brevità – ha scritto un’enciclopedia? Lo chiediamo a Massimo Introvigne, sociologo, autore de Il segreto di Papa Francesco (Sugarco, Milano 2013) e teorico dell’«effetto Francesco», secondo cui questo Papa riporta in Chiesa fedeli che ne erano lontani, oggi a Milano per un convegno all’Ambrosianeum su Chiesa e massoneria. «Una premessa – avverte Introvigne –: un testo così grande si presta a letture parziali.
A seconda dei gusti, s’insisterà sull’invito a partire dalla misericordia di Dio anziché dai precetti morali, e a una riflessione attenta quando si tratta di negare la comunione a certe categorie di persone, atteso che la Chiesa “non è una dogana”, non è lì per fermare qualcuno. Oppure, al contrario, si darà spazio alla forte denuncia del relativismo – compreso quello dei cattolici che occultano la loro identità cristiana – alla difesa della famiglia, alla condanna davvero durissima dell’aborto con la chiara affermazione che su questo punto – come su quello che nega il sacerdozio alle donne – la dottrina della Chiesa non cambia e non può cambiare».
«Ma qualunque lettura parziale, che cerca di estrarre dal documento qualche frase più gradita – continua Introvigne –, è sbagliata. Il testo ha una sua architettura precisa, che dev’essere seguita. Consta di cinque parti, attraverso cui (1) scopriamo come il cristianesimo o è missionario o non è, (2) affrontiamo gli ostacoli che si frappongono oggi alla missione, dall’interno e dall’esterno della Chiesa, (3) studiamo le modalità della nuova evangelizzazione, (4) ne esaminiamo le conseguenze – che non sono facoltative – sul piano della dottrina sociale, e infine (5) siamo richiamati alla dimensione spirituale che è l’anima di ogni apostolato».
«Da ognuno dei cinque capitoli – afferma il sociologo – possiamo estrarre un’idea forza. Dal primo, che evangelizzare gli altri non è facoltativo. Un cristiano che se ne sta a casa e non evangelizza non è cristiano. Dal secondo, il grande ritorno della denuncia del relativismo, cara a Benedetto XVI, primo ostacolo all’evangelizzazione e diffusore di una “tremenda superficialità” in campo morale. Il relativismo, si legge, fa male sia alla società sia alla Chiesa, dove coinvolge anche sacerdoti e religiosi come “mondanità spirituale” e desiderio dell’applauso del mondo. Dal terzo, la lunga analisi della crisi dell’omelia domenicale nelle nostre chiese e gli epiteti durissimi – “falso profeta, truffatore, ciarlatano” – che il Papa rivolge al prete che non prepara bene la predica, non vi annuncia la verità della Chiesa ma la sua, o si riduce a scimmiottare programmi televisivi. Dal quarto, dedicato alla dottrina sociale, una difesa della politica come “vocazione altissima” contro un “populismo irresponsabile” che fa solo demagogia e non risolve i veri, tremendi problemi di poveri sempre più poveri. Dal quinto, sulle radici spirituali, l’accenno mistico secondo cui se la nostra opera missionaria non dà frutto il Signore forse se ne servirà per riservare benedizioni su “un altro luogo del mondo, dove non andremo mai” e che neppure conosciamo».
«E volendo riassumere ancora?» «Guardiamo il titolo: parla di evangelizzazione e di gioia. Il Papa lo ripete: tutti devono evangelizzare. Con questo documento davvero storico la Chiesa passa a una fase che in inglese si chiama evangelical, non si misura più sull’amministrazione dei fedeli che vanno a Messa ma sulla capacità di cercare e convertire chi in chiesa non ci va. E non a caso le comunità protestanti evangelical crescono, mentre quelle tradizionali rischiano di sparire. Poi la gioia. Una Chiesa evangelical è piena di gioia e porta gioia, bellezza – c’è un importante richiamo a evangelizzare attraverso l’arte, altro grande tema di Benedetto XVI –, amore. Nel testo c’è una bellissima frase rivolta al mondo moderno: “la nostra tristezza infinita si cura soltanto con un infinito amore”».