Quando tutto sembra perduto, quando la malattia non risponde alle terapie e non si può più guarire, c’è ancora tempo per prendere in mano la propria vita, accompagnandola verso l’epilogo finale con dignità. È l’alternativa offerta dalle Cure Palliative, il cui scopo non è accelerare o ritardare la morte, ma preservare la qualità della vita fino all’ultimo istante. Questo tipo di cura consiste nel controllo del dolore e nella risposta ai bisogni psicologici, sociali e spirituali del malato e della sua famiglia da parte di équipe di specialisti, spesso affiancati da volontari.
Approfondiamo la questione con Valeria Ascheri, docente di Filosofia all’Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare della Pontificia Università della Santa Croce, che di recente ha svolto un lavoro di ricerca nell’area “Mass Media e Bioetica” presso la facoltà di Comunicazione Sociale Istituzionale della Pontificia Università della Santa Croce.
Chiunque sia affetto da una malattia inguaribile in fase avanzata può avere accesso alle Cure Palliative, quindi non solo i malati oncologici. Inoltre, la Legge 38 del 2010 sancisce che le Cure Palliative rientrano nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza, ndr) e, quindi, sono garantite dal Sistema Sanitario Nazionale a titolo gratuito.
Ritiene che la popolazione sia sufficientemente informata sulle possibilità di sottoporsi a tali cure? Qual è la comunicazione che ne viene fatta sui mass media italiani?
Valeria Ascheri: Penso che una larga fetta della popolazione non ne sia ancora informata o, quanto meno, abbia un’informazione scarsa e confusa, nonostante le cure palliative siano oggi un diritto per ogni cittadino. Sui mass media si parla assai raramente di cure palliative e, quando accade, è di solito in programmi televisivi di approfondimento (spesso in onda a tarda notte o in orari molto mattutini) oppure su giornali e riviste specializzate o all’interno di pagine o rubriche dedicate alla salute. Sui quotidiani si trova qualche cenno nelle cronache locali, che informano su attività dei centri operanti nel territorio, specialmente in occasione di manifestazioni a scopo benefico oppure quando, purtroppo, mancano le risorse finanziarie per attivare qualche progetto o garantire l’assistenza ai malati.
Le cause dell’assenza delle cure palliative dall’agenda setting dei mass media sono molte, ma il motivo principale è che parlare di sofferenza, malattie inguaribili e morte è molto difficile e non attira né il pubblico, né, tantomeno, finanziamenti o sponsor. Insomma, le cure palliative non fanno audience e per questo l’argomento sofferenza-morte-cure palliative è rimasto l’ultimo “argomento-tabù”, di cui è meglio non parlare affatto, se non in qualche caso eclatante e, di norma, per raccontare storie drammatiche e molto singolari, dai toni esasperati e, a volte, anche disperati.
Il paziente può decidere di essere assistito in ospedale, in hospice, a domicilio o in altre strutture residenziali a seconda della regione. Qual è la scelta migliore?
Valeria Ascheri: Certamente per il paziente è meglio essere curato a casa, circondato dai suoi cari, continuando a vivere nel suo ambiente e mantenendo alcune abitudini quotidiane che tutti noi abbiamo. È questo lo spirito delle cure palliative: una medicina “olistica” che si prende cura della persona (patient centered), dell’uomo nella sua integralità, superando la visione della medicina che mira soltanto a guarire la malattia (desease centered), ossia il corpo dell’uomo. In poche parole, si tratta di passare dal to cure (curare una malattia) al to care (prendersi cura della persona). Per questa ragione, la soluzione migliore sono le cure al domicilio con l’assistenza di personale qualificato. Gli hospice sono certamente strutture che, a differenza degli ospedali, si pongono l’obiettivo di offrire ai loro ospiti tutto quello che possono desiderare e di cui hanno bisogno. Al di là dell’assistenza sanitaria infermieristica e fisioterapica e delle terapie per alleviare o ridurre il più possibile il dolore, cure palliative significa assistenza psicologica e spirituale, estesa anche ai familiari vicini al malato. Significa proporre al paziente attività distensive (artistiche, musicali, botaniche, ecc.) che lo possano impegnare e, allo stesso tempo, rasserenare, accompagnandolo, giorno dopo giorno, nella malattia e nel graduale congedo dalla vita e dagli affetti. La qualità di vita di una persona non si misura soltanto in base al suo benessere fisico o all’efficienza personale, ma è molto di più, perché la persona non si riduce al suo corpo e la vita merita di essere vissuta fino alla fine nel migliore dei modi possibili.
Da tredici anni a questa parte, l’11 novembre si svolge la “Giornata di San Martino”, iniziativa promossa dalla Federazione Cure Palliative (FCP). Di che si tratta?
Valeria Ascheri: Quest’anno si celebra la XIV Giornata Nazionale delle Cure Palliative: il pallium è il mantello di San Martino che simboleggia le cure palliative che avvolgono tutta la persona e la coprono dal freddo, mettendola al caldo. Il malato grave e terminale non soltanto soffre nel corpo per la sua specifica malattia, ma soffre in tutta la persona – solitudine, depressione, senso di abbandono e di inutilità, disperazione – e ha bisogno di essere curato da tutti i punti di vista (total pain – total care).
In questa giornata, su tutto il territorio nazionale, si organizzano tantissimi eventi e campagne di informazione e sensibilizzazione, con lo scopo, almeno in questo giorno, di parlare di cure palliative in Italia e di far conoscere le diverse realtà (assistenza in ospedale, hospice, organizzazioni no profit, associazioni onlus, reti di volontari, purtroppo con una forte carenza al Sud rispetto al Centro Nord) e le loro attività. È un giorno molto importante perché, come dice il motto della campagna informativa del Ministero della Salute, lanciata nella scorsa primavera, ma poco nota, con “calore umano e scienza medica” si può essere “non più soli nel dolore”. Purtroppo, non lo si sa ancora abbastanza…
Scegliere San Martino ha un forte valore simbolico, che rimanda sia all’empatia con il sofferente, sia alla dimensione spirituale della morte. Le risultano storie di conversioni avvenute durante il percorso delle cure?
Valeria Ascheri: Sicuramente ci sarebbero moltissime storie da raccontare, rese possibili proprio grazie alle cure palliative, perché il malato è messo in condizione di pensare alla sua vita, affrontando la sofferenza in maniera adeguata. Accompagnato anche spiritualmente e circondato di attenzioni e affetto, molte volte trova Dio poco prima di incontrarlo faccia a faccia. Interessante, a questo riguardo, è la “Guida pratica per la cura spirituale della persona morente”, elaborata dalla Conferenza Episcopale di Inghilterra e Galles nel 2010 e che si può trovare tradotta in italiano nel libro di F. Cancelli, Vivere fino alla fine (2012). Il problema, se così vogliamo dire, è che queste storie sono strettamente personali e appartengono alla sfera spirituale, per cui ben pochi le raccontano, soprattutto al pubblico. Le cure palliative mancano di “testimonial mediatici” e questo fatto, seppur comprensibile, tuttavia va a incidere sull’aspetto comunicativo-divulgativo.
Posso, però, citare due testimonianze, non di conversione alla fede, ma di “storie di fine vita”, che meriterebbero di essere conosciute: si tratta del caso di una giovane donna toscana, Anna Lisa Russo (si può leggere il libro Toglietemi tutto tranne il sorriso, 2012) e del giornalista Gigi Ghirotti (1920-1974), in onore del quale, nel 1975, è stata costituita una fondazione intitolata a suo nome. Sono storie eroiche, molto diverse, ma contraddistinte entrambe dalla forza e dal sorriso che i protagonisti hanno avuto fino alla fine, storie che tutti, in primis i malati e i loro familiari, i medici e gli operatori san
itari, i politici e anche i giornalisti, dovrebbero conoscere, perché aiutano a capire quanto si possa ancora “fare” e “dare” da malati terminali.
Cosa si intende per “diritto a non soffrire” e cosa per “sollievo dal dolore”?
Valeria Ascheri: Ogni malato, seppur dichiarato inguaribile, ha diritto a non soffrire inutilmente, ossia più di quanto sia necessario e inevitabile. Oggi ci sono molte terapie e molti farmaci che aiutano a dare sollievo (la terapia del dolore, appunto) e che lasciano al malato la possibilità di vivere la malattia e gli ultimi mesi o giorni con i propri cari, magari portando avanti qualche ‘sogno nel cassetto’, come scrivere un libro, incontrare di nuovo un parente o amico lontano o con cui c’era stato un dissapore, pensare a come disporre dei propri beni, decidere di sposarsi (come ha fatto la già citata Anna Lisa Russo), laurearsi o conoscere un personaggio famoso (alcuni malati, ad esempio, esprimono il desiderio di incontrare il papa o un calciatore, un cantante o un attore e, non di rado, ci riescono).
Inoltre, non si può non ricordare che i farmaci e le terapie che alleviano il dolore sono assai meno costosi rispetto a quelli che mirano a guarire una malattia. Ciò è senz’altro un aiuto importante per i malati e le loro famiglie, già così duramente provati, ed è un argomento per sostenere la diffusione delle cure palliative. Per concludere, mi pare molto significativo che lo slogan della Giornata Nazionale di quest’anno sia incentrato proprio su questo aspetto: “Contro la sofferenza inutile della persona inguaribile”.
Com’è cambiato il ricorso alle Cure Palliative negli ultimi tredici anni?
Valeria Ascheri: In Italia c’è stata un’evoluzione certamente molto positiva che ha portato, nel marzo 2010, alla promulgazione della legge 38, in cui vengono sanciti il diritto e la gratuità dell’accesso a queste cure; l’Italia è ora un paese all’avanguardia dal punto di vista legislativo. Esistono due enti preposti a guidare la ricerca e i centri che se occupano: sono la Società Italiana di Cure Palliative (SICP), che pubblica anche la Rivista Italiana di Cure Palliative (RICP), e la Federazione Italiana Cure Palliative (FCP), promotrice della giornata di San Martino. Per merito della legge 38, l’utilizzo delle cure palliative è senz’altro in aumento, assieme all’apertura di nuovi hospice, di nuovi reparti all’interno di ospedali e alla nascita di nuove associazioni. Ciò avviene anche grazie a campagne volte a ottenere finanziamenti attraverso eventi organizzati a sfondo benefico o alla donazione del 5×1000 agli enti di volontariato che si dedicano alle cure palliative. Tuttavia, c’è ancora molto lavoro da fare, anche per ciò che riguarda i decreti attuativi della legge 38 e il riconoscimento della figura dello specialista in “cure palliative”. Infatti, soltanto a partire dal 2010 sono stati attivati corsi di specializzazione e master per “palliativisti” quando, in realtà, migliaia di persone lavorano da anni sul campo, garantendo lo sviluppo delle cure palliative nella fase pionieristica, ossia già prima della legge 38.
Siamo entrati in una nuova fase importante perché, grazie all’approvazione legislativa, oggi le cure palliative sono in condizione di diventare sempre più note, accessibili, e possono rompere quel tabù che ancora “frena” la loro piena diffusione. Si stima che, in Italia, i malati terminali (pazienti oncologici o con patologie neurologiche o vascolari) siano circa 250.000 ogni anno, di cui 11.000 bambini. Purtroppo, soltanto il 40% di questi accede alle cure palliative.