Papa Francesco, celebrando la Santa Messa nel pomeriggio del I novembre, nel Cimitero del Verano di Roma, ha cominciato l’Omelia con queste parole: «A quest’ora, prima del tramonto, in questo cimitero ci raccogliamo e pensiamo al nostro futuro, pensiamo a tutti quelli che se ne sono andati, che ci hanno preceduto nella vita e sono nel Signore. E’ tanto bella quella visione del Cielo che abbiamo sentito nella prima Lettura: il Signore Dio, la bellezza, la bontà, la verità, la tenerezza, l’amore pieno. Ci aspetta tutto questo. Quelli che ci hanno preceduto e sono morti nel Signore sono là. Essi proclamano che sono stati salvati non per le loro opere – hanno fatto anche opere buone – ma sono stati salvati dal Signore».
In questa prospettiva, cercherò di comprendere le valenze religiose e spirituali che, nel corso della storia, hanno mosso artisti e committenti alla rappresentazione della morte, e a realizzare monumenti funebri, nei quali la Fede e la Speranza si è espressa con diversi esiti compositivi, estetici e stilistici.
Per affrontare correttamente l’analisi iconologica dei monumenti funebri è bene muoversi con il criterio consigliato da George Kubler: «per coloro che si applicano allo studio del significato il criterio di valore non è la discontinuità, ma la continuità»[1]. Del resto, lo stesso termine linguistico “monumento” conserva in sé il senso dell’originario verbo transitivo latino mŏnēre, che si muove dal “far ricordare”, nel senso di “riportare alla memoria”, fino all’ “esortare nell’ammonimento”, provocando, suscitando, “ispirando pensieri”. Infatti la radice di “monito” e di “mente” è la medesima di “monumento”, e quest’ultimo tradotto in senso letterale significa semplicemente “strumento per far ricordare”. Il monumento si colloca, dunque, come “strumento”, tra il ricordo e il pensiero, tra il portare alla memoria fatti, cose, persone e il riflettere su di esse. Ma il monumento ha anche il compito di costituire un monito, che è per sua natura sospeso tra il ricordare e il meditare, in senso più propriamente spirituale. Riflettendo ulteriormente, si intende il monumento non solo in senso ottocentesco come dedica ad un personaggio illustre del passato più o meno remoto, come omaggio della città ad un suo poeta o artista famoso, ritenuto in qualche modo fondativo della stessa civitas, che lo rappresenta autocelebrandosi, ma nel monumento funebre c’è qualcosa di più e di diverso.
Prima di tutto, ci si può soffermare sul fatto che molti hanno commissionato a grandi artisti il proprio monumento funebre, molti anni prima della morte e in previsione di essa, e questo è certamente il primo senso dello “strumento di memoria”, giacché serve allo stesso committente per ricordare costantemente l’esito della sua vita. Il monumento funebre in questo caso è iscrivibile nell’ambito del tema iconografico della vanitas, come mezzo di ricordo di memoria della caducità delle cose vane, divenendo vero e proprio memento mori. Ma nella cultura cristiana, ogni esito personale non può rimanere separato dalla collettività, l’agire del cristiano è agire nella societas, e ancor più edificare la stessa civitas, perché la fede non è -come vorrebbe una certa cultura liberale otto-novecentesca- un fatto privato, ma esattamente l’opposto, cioè eminentemente pubblico. Ecco che in questa prospettiva il monumento funebre cristiano svolge non solo il compito di pietas nei confronti del defunto, ma di carità nei confronti dei vivi che ad esso guardano con rispetto.
Per comprendere bene quel che stiamo dicendo, prendiamo come primo esempio L’altare della Trinità[2], eseguito negli anni 1424-1425 da Tommaso di ser Giovanni Cassai detto Masaccio, nella Chiesa di S. Maria Novella a Firenze. L’affresco nel registro inferiore rappresenta uno scheletro adagiato sopra un sarcofago, affiancato da due coppie di colonnine alle estremità e posto sotto un piano, al momento fisicamente non presente, ma che getta comunque ombra sul fondo della parete; lo scheletro è posto, dunque, sotto il piano della mensa che costituisce, o meglio che costituiva, l’altare reale della cappella ficta, nella quale la riflessione sulla morte è parte integrante della meditazione sull’azione salvifica della Croce all’interno della storia della salvezza, nell’economia intra-trinitaria ivi rappresentata. Sul fondo della parete, poco sopra lo scheletro, campeggia una scritta in caratteri capitolini che recita: «IO FU’ GIÀ QUEL CHE VOI SETE, E QUEL CH’I’ SON VOI ANCO SARETE». Questa scritta è ovviamente il precipitato di una riflessione personale sulla morte, condotta dal committente e partecipata all’artista che la scrive ma, oltre a svolgere una funzione rammemorativa personale, diviene, per il semplice fatto di essere scritta in un luogo pubblico quale la chiesa, un monito e un ammaestramento per gli altri.
Un secondo esempio che voglio analizzare è la monumentale Tomba di Alessandro VII Chigi, realizzata tra il 1671-78 da Gian Lorenzo Bernini e dai suoi collaboratori, all’interno della Basilica di San Pietro in Vaticano, sul lato destro del passaggio tra la cappella della Madonna della colonna e il transetto di sinistra. Il monumento funebre è commissionato direttamente dal Pontefice nei primi anni del suo pontificato, ma alla sua morte, il 22 maggio 1667, i lavori non avevano ancora avuto inizio. Clemente X Altieri volle rispettare il desiderio del suo predecessore, incoraggiando il cardinale Flavio Chigi, nipote di Alessandro VII, a finanziare i lavori e quindi portare a termine l’impresa.
Bernini costruisce uno spazio architettonico attraverso la sculturae, collocando il monumento al di sopra di un passaggio verso l’esterno della basilica, enfatizza ulteriormente il senso escatologico della composizione.
Infatti, il ritratto del Pontefice viene collocato inginocchiato sopra un piedistallo in alto, sormontando un immenso panneggio realizzato in travertino romano e ricoperto di diaspro di Sicilia. Il panneggio è circondato da quattro statue allegorie di virtù; la Carità posta a sinistra di chi guarda in primo piano, poi, dietro, la Giustizia e la Prudenza ed in fine sul lato destro, in primo piano, la Verità che fa splendere la sua luce e illumina il mondo dal quale si erge radiosa. Si potrebbe dire che questo monumento funebre non solo ha sapore escatologico, ma è anche rappresentazione del Salmo 84 che recita: «La sua salvezza è vicina a chi lo teme /e la sua gloria abiterà la nostra terra. /Misericordia e verità s’incontreranno, /giustizia e pace si baceranno. /La verità germoglierà dalla terra /e la giustizia si affaccerà dal cielo.//Quando il Signore elargirà il suo bene, /la nostra terra darà il suo frutto./Davanti a lui camminerà la giustizia /e sulla via dei suoi passi la salvezza».
Al centro, proprio sopra la porta, il panneggio è sollevato da uno scheletro alato, raffigurazione della morte che annienta e vince tutti i legami dell’uomo, che in mano porta una clessidra, metafora del tempo che corrompe tutte le cose, in una rappresentazione della “mors omnia solvit”, intesa non solo in senso giuridico, ma anche in senso antropologico.
Il senso complessivo di questo monumento funebre è racchiuso proprio nelle tre figure frontali, giacché la morte apre la strada: Mors est ianua vitae. Qui, letteralmente è presente una porta. La morte dell’uomo virtuoso è dunque una porta verso l’eternità. Il monumento allora risuona ancora oggi come un trattato dell’arte di ben vivere e di ben morire, ultimo lascito di un pontefice che nel pensare la propria sepoltura costruisce un testamento morale e spirituale, che sembra parafrasare le imperiture parole di san Paolo: «Quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d’in
corruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria (Is 25, 8). Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? (Os 13, 14). Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci da’ la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo! » (1 Cor 15, 54-57).
Questo monumento funebre, come del resto altri eretti dai pontefici, deve essere visto non alla luce di una interpretazione sfarzosa, ma all’interno di una visione complessa quanto ricca di significato spirituale e salvifico, come fosse l’estrema “enciclica” scritta da un Pontefice sul tema della morte cristiana, e quindi sulla vita eterna e i mezzi con cui conseguirla.
Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Storico dell’arte, Accademico Ordinario Pontificio. Website: www.rodolfopapa.it Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com e.mail: rodolfo_papa@infinito.it.
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NOTE
[1] G. Kubler, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, trad.it. G. Casatello, Einaudi, Torino 1989, pag. 150.
[2] Studi recenti hanno posto il problema della titolazione di quest’opera di Masaccio, che solitamente viene denominata come Trinità, ma questo descriverebbe solamente la parte superiore dell’affresco. Cfr. E. Marino, La Trinità di Masaccio, Nerbini, Firenze 2008.