Pubblichiamo oggi una riflessione firmata da monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo della diocesi di Catanzaro-Squillace, su papa Giovanni Paolo I, di cui è stato commemorato lunedì scorso il 35° anniversario della sua elezione al Soglio di Pietro.
L’articolo è stato pubblicato anche sull’edizione de L’Osservatore Romano di domenica 25 agosto.
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Eletto al secondo giorno di conclave, il 26 agosto 1978, Albino Luciani, patriarca di Venezia, sceglie di chiamarsi Giovanni Paolo I, accomunando deliberatamente nel nome papa Angelo Roncalli (che l’aveva fatto vescovo) e Paolo VI, che sulla laguna lo aveva fatto arrossire mettendogli la propria stola sulle spalle (e lo aveva voluto cardinale). Dio lo chiamerà a sé poche settimane dopo, il 28 settembre, permettendogli – tuttavia – di trasmettere un radiomessaggio Urbi et orbi, un messaggio, scrivere otto discorsi, siglare sette lettere, di cui tre apostoliche, di indirizzare cinque allocuzioni all’Angelus, a pronunciare due omelie nel corso della celebrazione eucaristica e ad animare quattro udienze.
Dell’intenso e indimenticato settembre di papa Luciani, vorrei oggi ricordare i momenti bellissimi delle udienze del mercoledì, nelle quali sembra riprendere, in qualche modo, la sua Catechetica in briciole. Edita nel dicembre 1949 in essa raccomandava al catechista l’entusiasmo, la convinzione, l’amore e non soltanto la scienza e la conoscenza, ma soprattutto la capacità di essere comunicatore. Come quelle del predecessore, egli avrebbe voluto fare delle sue udienze, (e lo disse il 6 settembre), «una vera catechesi adatta al mondo moderno»: quella di un Papa-catechista, appunto. Quasi trasformando quegli incontri partecipatissimi in quattro stazioni di accostamento al nucleo centrale del cristianesimo, la prima volta chiamò accanto a sé un chierichetto (il «catechista si preoccupa non solo di fare parlare lui, ma soprattutto di far fare agli alunni e di farli parlare», recitava il capitolo 4.6 della Catechetica). In tal modo riuscì a presentare, in successione, anzitutto il clima proprio della comunità ecclesiale; la settimana dopo, la tonalità emotiva ed esistenziale dell’atto di fede che, sulla base di Trilussa, di Saulo-Paolo e di Agostino, fu efficacemente da lui descritta come un «arrendersi a Dio, ma trasformando la propria vita», pre-sapendo cioè che Dio ha «più tenerezza ancora di quella che ha una mamma verso i suoi figlioli»; il 20 settembre, mentre a Friburgo un consesso internazionale discuteva sul “futuro della speranza”, fu la volta della speranza, da lui assimilata alla iucunditas di Tommaso d’Aquino ed alla hilaritas di Agostino; infine, il 27 settembre, riprendendo testualmente l’atto di carità, insegnatogli dalla mamma quando era piccolo, (un “bocia”), parlò dell’amore, qualcosa che non solo rimane nella memoria e nella mente come un qualunque dato dell’apprendimento, appresa, ma che attrae ogni volta che ci si pensa, come un «correre con il cuore verso l’oggetto amato».
Di quelle quattro udienze, caratterizzate sempre da un’atmosfera di fraternità palpabile, con citazioni non soltanto dei Padri e dei teologi, ma anche di pensatori e letterati (la seconda volta fu il turno di Ozanam e Lacordaire; la terza di Saint Beuve e dello scozzese non cattolico Andrea Carnegie; la quarta di un suo imprecisato professore di filosofia e di Jules Verne). Momenti intensi, quasi di contatto diretto con i propri confratelli nell’episcopato e con tanti laici. Un “momento di famiglia”, percepito come se si fosse alla presenza, nel modo più tenero, del Signore, come capita ad un bambino quando sta di fronte alla mamma: «Come un bambino davanti alla mamma crede alla mamma, io credo al Signore». Papa Luciani evocherà ancora la propria mamma terrena il 13 settembre, per illustrare il particolare rapporto di fiducia che si stabilisce con Dio, prima che con le sue verità, nell’atto di fede: «Mi diceva quand’ero grandetto: da piccolo sei stato molto ammalato: ho dovuto portarti da un medico all’altro e vegliare notti intere; mi credi? Come avrei potuto dire: mamma non ti credo? Ma sì che credo, credo a quello che mi dici, ma credo specialmente a te». Purtroppo, poté accadere solo quattro volte (quanti furono i mercoledì) quella “magia di famiglia”. La prima volta papa Luciani – che il 13 si autodefinirà “il povero papa”, al momento di parlare della fede – , volle non a caso evocare una certa atmosfera di “famiglia delle famiglie” per tratteggiare la stessa Chiesa. Egli cominciò citando «Cardinali e Vescovi, miei fratelli nell’episcopato. Io sono soltanto il loro fratello maggiore». Ma, poi, volle dialogare direttamente sul tema della reciproca cura in famiglia e tra le generazioni, parlando a tu per tu con James, uno dei chierichetti di Malta, che per un mese avevano fatto servizio in san Pietro. Un vero stile di famiglia richiede una cura, un’attenzione reciproca, soprattutto nei momenti di bisogno, porgendo, che so?, del cibo, dell’acqua, una medicina. E, tuttavia, «non basta il caldo, il cibo, c’è un cuore; bisogna pensare anche al cuore». E chiuse dapprima con un saluto agli sposi novelli (di cui avrebbe incontrato un altro gruppo la settimana dopo), ricordando, e in qualche modo cercando di riparare la piccola gaffe – nella quale era incorso quando era patriarca a Venezia quando su un quotidiano aveva ripreso il paragone di Montaigne, del matrimonio come una “gabbia”. La sua prima udienza richiamava, insomma, ambiente e motivi di vita familiare impreziosita da una certa commozione; la famiglia, osservò, «commuove particolarmente, perché la famiglia è una grande cosa». E, essendo presenti i partecipanti ad un Congresso promosso dalla Società Internazionale dei Trapianti – allora erano già molto dibattuti i temi dell’accertamento della morte encefalica a fini di prelievo di organi, e della connessa sperimentazione, in qualche modo, effettuata su esseri umani per arrecare eventuali vantaggi ad altri malati -, il pontefice, in francese, volle ribadire che, ad ogni donatore d’organi corrisponde un possibile beneficiario: «Non si può mai trasformare l’essere umano in un oggetto di sperimentazione», soprattutto quando è più debole o ammalato, come può capitare nella stagione anziana della vita.
Otto giorni dopo, all’interno di una ripresa delle “sette lampade della santificazione” (di cui aveva parlato papa Giovanni XXIII), Giovanni Paolo I descrisse il dinamismo interpersonale della fede come una sorta di colloquio-confronto tra il Signore e ciascuno di noi, in particolare tra Gesù e la Chiesa. Fu in quella circostanza che riprese l’antica teologia del Cristo-capo e della Chiesa-corpo, quella stessa che – tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo – aveva consentito a Giacomo da Viterbo di scrivere il primo “trattato separato sulla Chiesa”, ripensando cristologicamente la teoria del potere e, quindi, del rapporto possibile tra potere del vicario di Cristo ed i capi delle nascenti grandi nazioni europee. Poté così ripresentare la realtà ecclesiale come un “corpo familiare”, in cui soprattutto si ama e non ci si tradisce, pur non omettendo la presenza dei quasi inevitabili difetti: «Se ci sono, e ci sono, dei difetti e delle mancanze, non deve mai venire meno il nostro affetto verso la Chiesa». Fu poi il turno della “terza lampada”, quella della speranza, introdotta dal Papa con alcuni passi della Divina commedia, dai quali si ricava quella sorta di esame a cui racconta di essere stato sottoposto il pellegrino-Dante sulle tre virtù teologali. La speranza viene tratteggiata con quel caratteristico metodo catechistico del “botta e risposta” (spesso con aneddoti di vita), elogiando la virtù della fiducia e dell’abbandono; anche nelle difficoltà e nelle cattive riuscite, infatti, la speranza resta ferma, incroll
abile. Il Papa mostra molta «simpatia per la speranza», in controtendenza rispetto ad una certa cultura contemporanea che aveva preso spunto dalla caratterizzazione fornita da Nietzsche (virtù dei deboli) o dal marxismo (alienazione). Viene, così, il turno dell’ultima catechesi sulle espressioni principali dell’atto di carità: ti amo con tutto il cuore («la bandiera del massimalismo cristiano»); sopra ogni cosa (amore prevalente per Dio, nulla come Dio, nulla quanto Dio, ma non esclusivo: Dio non è geloso); e per amor vostro amo il prossimo mio (con la bellissima apertura, oltre che alla giustizia, alla carità praticata, ovvero alle «sette opere di misericordia corporali e sette spirituali»); perdono le offese ricevute: un perdono che ha quasi precedenza sullo stesso culto; Signore, che io vi ami sempre più: un viaggio più intenso e perfetto dello stesso viaggio del progresso scientifico e tecnologico, che ha portato l’essere umano dalle palafitte ai grattacieli e agli aerei.
Nell’Anno della fede e dopo qualche mese dalla prima enciclica di papa Francesco, Lumen fidei, – che chiude la trilogia ratzingeriana sulle virtù teologali -, il confronto con le catechesi di papa Luciani permette proprio, come teorizzava già la sua Catechetica, di vedere davvero in azione le virtù teologali, non effigiate in quadri, ma rese «vive e parlanti» (cf 4.20) del caro, sempre presente nei nostri cuori, sorridente papa “dei trentatré giorni”, del quale possiamo dire “consummatus in brevi, explevit tempora multa” (Sap 4,13).
+ Vincenzo Bertolone