Crebbe in una ricca famiglia lombarda, educato dalla madre all’amore per i poveri – Dedicò tutto se stesso al successo della fabbrica fondata da suo padre, portandola al top in Europa – Nel 1965, a 49 anni, vendette tutto, e impegnò il resto della sua vita e tutte le sue ricchezze per i più poveri tra i poveri in Amazzonia , fondando ospedali, lebbrosari, asili, scuole che sono tuttora in piena e ottima attività
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Quando lo incontrai la prima volta, nel 1969, Marcello Candia aveva 54 anni.
Era un personaggio famoso soprattutto tra la “gente bene” di Milano. Negli anni dell’immediato dopoguerra, aveva dato prova di essere un brillante imprenditore. La sua fabbrica di acido carbonico, con sede a Milano e succursali in Toscana, Campania, Puglia e paesi esteri, era una delle principali ditte del settore a livello europeo. Poi, nel 1965, Candia aveva sbalordito tutti . Aveva deciso di vendere ogni proprietà per andare a fare il missionario laico in Amazzonia.
L’anno in cui lo conobbi, una giuria internazionale gli aveva attribuito il Premio della Bonta “Notte di Natale”, fondato da Angelo Motta, per esaltare un personaggio che avesse compiuto eccezionali atti umanitari. Candia era stato proclamato “l’uomo più buono dell’anno”.
Era arrivato dall’Amazzonia per ritirare il premio, consistente in una ingente somma. Ma era impacciato e confuso. “Macché l’uomo più buono dell’anno”, ripeteva imbarazzato, “io sono soltanto un povero peccatore. Sono venuto a ritirare questo premio non perché lo meriti ma perché quei soldi mi servono. Sto costruendo un grande ospedale nella foresta brasiliana, a Macapà, e i costi sono spaventosi”.
“Laggiù ho trovato la mia famiglia”, mi disse Marcello Candia sottovoce, quasi imbarazzato nel dover parlare di se stesso. “Ci sono tanti bambini abbandonati, che non hanno niente. Se non li aiutiamo noi, possono morire di fame, di malattie, di sofferenze. Dio è Padre di tutti. Ci ha insegnato che ogni uomo è nostro fratello. E io considero quei bambini abbandonati e lebbrosi come miei figli”.
Pronunciando quelle parole, il suo volto si era aperto in un sorriso dolcissimo, che mi commosse. Non disse altro sull’argomento. Ma mi fissò dritto negli occhi, come per trasmettermi ciò che aveva nel cuore e che non avrebbero potuto esprimere con le parole.
Ci lasciammo. Nel taxi mentre tornavo alla redazione del mio giornale, riflettevo. Era una giornata nebbiosa. La città era in fermento per i preparativi del Natale. La gente entrava ed usciva dai negozi comperando regali. Tutti pensavano ai loro cari, ai figli. Candia, l’ex ricco industriale, diventato povero per amore di Dio, era là nella sua cameretta, che pensava ai suoi piccoli in Brasile. Non era sposato, non aveva figli che portavano il suo nome. Ma, sotto l’impulso di un amore grandissimo, era diventato papà di una moltitudine di bambini che non avevano niente. Un amore eccelso, il più grande che si possa incontrare. Un amore che si avvicina a quello di Dio. La sua famiglia era immensa. E la sua paternità sublime.
In seguito, ho incontrato Marcello Candia altre volte e ogni volta mi appariva sotto questo aspetto: un “papà” straordinario, sempre di corsa, sempre pieno di pensieri e di preoccupazioni perché doveva provvedere alla sua grandissima famiglia. Un padre premuroso per centinaia di bambini, di poveri, di diseredati. E così fu sempre, fino alla sua morte, avvenuta nel 1983.
La vocazione a questa sublime paternità l’aveva avuta da bambino. Era un dono di Dio. Una chiamata che il Signore riserva ai grandi spiriti, spiriti capaci di contenere un amore enorme.
Era nato in una famiglia ricca. Suo padre, Camillo, laureato in chimica, nel 1906 aveva fondato la “Fabbrica italiana di Acido Carbonico”, che fece la fortuna della famiglia. La madre di Marcello, Bice Busatto, era una donna di grande fede religiosa. Più volte Marcello mi disse che erano stati i suoi genitori a educarlo nell’amore verso gli altri. Soprattutto la madre.
Quando era bambino, la mamma lo accompagnava nelle famiglie più disagiate a portare cibo, vestiti, denaro, medicine. Durante il liceo, frequentava la “mensa dei poveri”, tenuta dai padri Cappuccini a Milano, e aiutava i frati a distribuire la minestra ai “barboni ” della città.
A 17 anni venne colpito da un gravissimo lutto. Perse la madre, che morì per una polmonite. Il dolore lo sconvolse in maniera tremenda. Entrò in una profonda crisi depressiva. Si rifiutava di mangiare, non voleva più vivere. Trascorse un anno intero in uno stato di totale apatia. Smise anche di studiare. Ma poi quel brutto periodo finì. E in ricordo della bontà della madre, decise di dedicare la sua vita agli ideali di altruismo che lei gli aveva insegnato.
Pensava di diventare missionario. Prima, però, voleva concludere gli studi, perché era convinto che con una laurea avrebbe servito meglio i poveri.
Nel 1939 si laureò in Chimica pura e un anno dopo in Farmacia. Poi scoppiò la guerra. Il suo sogno di diventare missionario dovette così aspettare. Nel 1941 fu chiamato sotto le armi, dove rimase fino al 1943. Nel frattempo continuava a studiare e nell’ottobre del ’43 conseguì la sua terza laurea, in Scienze Biologiche. Terminata la guerra, il padre si ammalò e Marcello dovette prendere in mano la direzione della ditta.
Si buttò a capofitto in questa nuova attività. Era un organizzatore formidabile, aveva una straordinaria capacità negli affari e sotto di lui, l’azienda paterna andava a gonfie vele.
Però Marcello non aveva dimenticato i suoi ideali. In attesa di potere realizzare la sua vocazione, si dedicava ai problemi missionari in altro modo. Già nel 1946, cioè l’anno stesso in cui assunse la direzione dello stabilimento del padre, istituì l’Associazione “Laici Aiuto Missioni”, un ente che si interessava di cooperazione con i missionari. Subito dopo fondò la rivista “La Missione”, che doveva far conoscere i problemi delle missioni. E sempre in quel periodo diede vita, a Milano, al “Villaggio della Madre e del Fanciullo”, per assistere le ragazze madri. Creò anche diversi centri di assistenza medica gratuita per i reduci dalla guerra e per i poveri, e corsi di medicina per missionari.
Nel 1950 conobbe padre Aristide Pirovano, un missionario originario di Como, che aveva fondato la missione di Macapà, in Brasile, alle foci del Rio delle Amazzoni. I due diventarono subito amici. Ascoltando i racconti del missionario, Candia cominciò a pensare seriamente di trasferirsi anche lui in Brasile. Decise che lo avrebbe fatto non appena la fabbrica fosse stata in grado di fare a meno della sua presenza.
Nel 1955, gli parve fosse giunto finalmente il momento tanto atteso. In Amazzonia era atteso dal suo amico padre Aristide Pirovano, che, proprio in quell’anno era stato nominato vescovo di Macapà.
Ma, mentre si stava preparando a dare la notizia ai suoi familiari, ecco un nuovo ostacolo. La notte del 22 ottobre 1955 il suo grande stabilimento chimico venne distrutto da un incendio. Decine di operai rischiavano di rimanere senza lavoro. Marcello capì che non poteva abbandonare quella gente nelle difficoltà. Rimandò ancora il suo viaggio. “Ricostruiremo tutto”, disse agli operai “nessuno di voi resterà senza lavoro”.
Si mise all’opera, con quella grinta e con quella incredibile resistenza alla fatica che lo distingueva. In dieci anni, lo stabilimento ridivenne un gioiello di efficienza e modernità. Adesso poteva andare avanti da solo. E, finalmente, nel 1965 Candia vendette tutto quello che aveva e partì per il Brasile.
(La seconda parte segue domani, martedì 27 agosto)