John Maynard Keynes scrisse che “gli uomini politici credono erroneamente di essere esenti da influenze intellettuali, ma sono di solito schiavi di qualche economista defunto”. Questo vale in ogni tempo per i politici ma anche oggi per gli economisti, che in molti casi purtroppo credono di poter strumentalizzare le teorie dei loro predecessori.
Adam Smith, il padre della scienza economica moderna, ad esempio, è citatissimo dalla cultura Lib/Lab (liberisti – Laburisti) – quasi sempre fuori posto – come l’alfiere del libero mercato. Ma Smith era prima di tutto un filosofo morale e con queste lenti leggeva l’economia. Di certo non può essere strumentalizzato come padre del liberismo economico fondato sul cheering nichilism (radicale individualismo privo di senso, scopo e valore etico).
Il filosofo ed economista scozzese pensava all’economia e al mercato come a un’istituzione etica in grado di migliorare i comportamenti delle persone. Nei suoi scritti, il suo pensiero economico era legato all’etica: egli sapeva infatti che non tutto si esaurisce con il mercato e che molti beni non possono essere soggetti alle leggi del mercato, come, ad esempio, i beni culturali, la giustizia, la scuola. Era consapevole che il capitale è la cosa più importante per avviare un sistema di produzione industriale, ma era anche convinto che subito dopo in ordine di importanza logica veniva il lavoro. Anzi, lavoro e capitale sono due facce della stessa medaglia, non uno l’opposto dell’altro.
Da Londra, una recente statistica della Chartered Institute of Personnel and Development (Cipd), spiega come sia possibile che un’economia in recessione sia in grado di produrre posti di lavoro, in evidente controtendenza rispetto al trend del sud-centro Europa. La ricerca smaschera l’”errore” dell’ufficio nazionale di statistica (Office for National Statistics) che, un paio di settimane fa, aveva riferito che le persone assunte con contratto “a zero ore” erano circa 250.000.
La ricerca del Cipd dimostra come il dato sia stato “dopato”, in quanto le persone assunte con contratto “a zero ore” sono quattro volte in più di quanto calcolato, ovvero almeno un milione, il 3,5% della manodopera totale. La ricerca evidenzia inoltre che il 20% delle aziende ha assunto almeno una persona con un contratto senza garanzia di ore lavorative. Secondo le cifre del sondaggio, il 14% di chi viene “assunto” con questo contratto afferma di non ricevere abbastanza lavoro per vivere decentemente, generando il triste fenomeno del working poor (persone che pur lavorando percepiscono un reddito inferiore alla soglia di povertà).
Secondo un articolo pubblicato dall’Independent, chi viene assunto con contratto “a zero ore” tende a guadagnare 9 sterline lorde all’ora, mentre chi ha contratti di tipo più tradizionale guadagna 15 sterline lorde all’ora. I neolaureati con questo tipo di contratto guadagnano la metà rispetto ai colleghi con contratto full time. Quindi il problema riguarda i lavori sia a basso che ad alto capitale umano. La media di ore lavorative è inferiore per i lavoratori a zero ore: 21 invece delle 31 dei colleghi con contratti più tradizionali.
Attenzione non si tratta di “contratti di solidarietà”, ovvero quel fenomeno per cui le imprese in crisi, pur di evitare i licenziamenti, trattengono i dipendenti a condizioni economiche ridotte in attesa di tempi migliori. Il “contratto a zero ore” è tipico del diritto anglosassone, ed è stato introdotto nell’ordinamento italiano nel 2003 come contratto di lavoro intermittente, o “a chiamata”. Oltre al danno la beffa: statisticamente queste forme di contratto vengono considerati full employment (piena occupazione).
Tale contratto dimostra a quali livelli di flessibilità è sottoposto il lavoratore inglese. Inoltre è utile esaminare come siano strutturati gli “zero hours”. Per prima cosa bisogna dire che si tratta di lavori che non garantiscono un minimo di salario e di diritti, ma sono governati solo dalla domanda. In altre parole, il lavoratore attende di essere chiamato (e pagato) per qualche ora, per qualche giorno o qualche settimana, seguiti da pause (non pagate) variabilmente lunghe per poi, magari, ritornare al lavoro quando c’è richiesta di lavoro.
Inoltre gli “zero hours” non prevedono copertura in caso di malattia, anche se le norme europee sul lavoro impongono il riconoscimento della malattia e delle ferie. Questa forma contrattuale è molto “utilizzata” dal privato e dal settore pubblico, che ne fa largo uso per rimpiazzare le posizioni chiuse in nome della spending review.
Anche la Casa Reale britannica ha 350 lavoratori con contratti “a zero ore”, impiegati negli shop, nei punti d’accoglienza o nelle stanze del palazzo aperte ai visitatori. Tra le aziende for profit che maggiormente fanno di questi contratti ci sono: McDonald’s (che ha ammesso di impiegare il 90 % del proprio personale, circa 92.000 persone), Subway, Sports Direct (colosso del retail sportivo che impiega 20mila persone, la quasi totalità, a “zero ore”), Burger King Pizza Domino, British Retail Consortium, Tesco, Asda, Sainsbury, Morrison, John Lewis, Marks and Spencer, Argos, Homebase, B & Q, Pret a Manger, Waitrose ecc.
Quindi ci troviamo di fronte ad un fenomeno di precarietà totale che genera insicurezza endemica nei lavoratori ed ha conseguenze negative nella loro vita psicologica e relazionale, uccidendo spesso anche la speranza. La nostra società dovrà affrontare, prima o poi la questione della coesione sociale, della “solidarietà sociale”, della diseguaglianza, dei diritti fondamentali della persona. La nostra società sta fallendo il suo compito verso la maggioranza dei cittadini.
La Dottrina sociale della Chiesa (DSC) analizza e indica delle strade rispetto a questi conflitti tra il mondo del lavoro e quello delle imprese multinazionali. La DSC non assiste impotente al continuo sfruttamento dei lavoratori e all’aumento della disoccupazione, che, assieme al sottosviluppo, è spesso considerato uno strumento necessario per la crescita e il buon funzionamento dell’economia neoliberista (cfr Caritas in Veritate n. 35).
La DSC denuncia infatti l’iniquità e la non sostenibilità di un sistema economico che riesce a curare solo gli interessi chi si trova in cima alla scala sociale. La Chiesa ribadisce il principio della preminenza del lavoro e della persona nei confronti del capitale – il capitale deve essere al servizio del lavoro e della persona – sollecitando ad applicarlo nelle società postmoderna per dare vita ad uno sviluppo giusto e sostenibile.