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Marco Tosatti spiega il ritorno a un cristianesimo le cui ragioni razionali sono impressionanti

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ROMA, sabato, 11 agosto 2012 (ZENIT.org) – Riportiamo parte dell’‘intervista che Lorenzo Fazzini ha fatto a Marco Tosatti, già vaticanista de “La Stampa”, pubblicata nel libro “Nuovi Cristiani d’Europa” (Lindau 2009).

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Come è possibile definire il suo cammino spirituale: una conversione religiosa? Un riavvicinamento? Un «re-inizio»?

Non c’è dubbio: nel mio caso si può parlare di un riavvicinamento. Sono nato a Genova nel 1947 e sono cresciuto a Torino con un’educazione famigliare di tipo cattolico. Ho fatto la prima comunione, ho partecipato alle attività della San Vincenzo fino ai primi anni dell’adolescenza. Poi,

verso i 13-14 anni, mi sono allontanato dalla pratica religiosa. Non c’è stato un motivo particolare che ha causato questo allontanamento: l’adolescenza è il periodo in cui uno pensa di porsi in maniera titanica rispetto alle cose della vita. In questa scelta c’è stato, e fu molto forte, l’influsso di mio fratello Giorgio (noi siamo orfani di padre, che è morto quando avevo un anno e mezzo). Giorgio era un agnostico molto «militante» e questa sua dimensione personale mi ha condizionato molto nella mia fase adolescenziale. Da allora – erano i primi anni Sessanta – c’è stato da parte mia un rifiuto progressivo di tutto quello che era la religione e di quanto era legato alla fede. Tutto questo avveniva secondo un modello di pensiero molto «illuministico», ovvero con la scoperta delle polemiche classiche contro la Chiesa – che ora invece considero forti mancanze rispetto alle esigenze del Vangelo –, ma che allora consideravo posizioni connaturate al messaggio cristiano. La mia posizione era molto razionalistica, direi volterriana. Questa situazione si è protratta fino alla metà degli anni Novanta: diciamo che si è trattato un periodo lungo, tra i 35 e i 40 anni.

E come si è configurato questo cammino di «riavvicinamento» alla fede?

Non so se posso collocare un momento preciso per un inizio di «conversione». Occupandomi di questi argomenti c’è stato un «ritorno» un po’ in generale al tema religioso: ho studiato l’arabo e mi sono interessato di islam e Corano. Ho sempre avuto interesse per la meditazione zen essendo un grande appassionato e praticante delle arti marziali. Anche questa è stata un’altra strada che ha tenuto desta in me la ricerca religiosa, sebbene in questo caso si tratti di qualcosa più incentrato sul concetto di interiorità piuttosto che sulla ricerca di un polo esterno, come è invece il discorso religioso. Ma anche questa passione per le arti marziali ha rappresentato per me una sorta di «porta metafisica» aperta sulla domanda religiosa. Tutto questo ha avuto conseguenze molto precise, ovvero la consapevolezza, o meglio il sospetto, che non tutto si trova qui davanti a noi e che non tutto scompare con la fine della materialità della vita. Non c’è stato dunque niente di clamoroso, nessuna illuminazione improvvisa o folgorante che ha determinato il mio «riavvicinamento». Devo invece sottolineare che l’incontro – innanzitutto di carattere professionale – con Giovanni Paolo II ha avuto uno sviluppo molto forte per la mia persona. Mi sono trovato di fronte ad una persona che ho scoperto nella sua eccezionalità umana, in nel suo carisma e nella sua intelligenza.

Cosa ha creato l’interrogarsi sulla figura di Giovanni Paolo?

Questo pormi tali domande ha iniziato a «lavorarmi» dentro e ha accompagnato il sorgere di un interesse per lo studio sulla nascita del cristianesimo. In tutto questo si è confermato il fatto che, personalmente, mi sento una persona con una componente razionale importante. Mi sono così dedicato a leggere e a studiare la storia dei Vangeli e gli Atti degli Apostoli. Da cui ho capito che, nella Palestina di allora, intorno alla persona di Gesù è successo davvero qualcosa di straordinario. Tutto, il comportamento delle persone intorno a lui, quello che è stato scritto e che ora abbiamo ancora, è straordinario! Quelle povere persone che erano pescatori, dopo la resurrezione, cambiano totalmente, e lo fanno non per formare un potere terreno (tutt’altro!), ma vanno in giro per il mondo a testimoniare un Risorto e a farsi ammazzare per questa fede. Questo è quello che è successo ed è quanto è stato raccontato in maniera credibile nei testi che possediamo ancora oggi. Il comando “Amate i vostri nemici, benedite chi vi perseguita, fate del bene a quelli che vi odiano e pregate per coloro che vi insultano e vi danno la caccia…” (Matteo, 5:44 ) è qualcosa di impressionante, ci deve essere qualcosa di diverso dall’umano per suscitarlo! Tutto questo studio ha contribuito al mio percorso di riscoperta del cristianesimo. Ho iniziato a studiare le origini della religione cristiana per cercare delle risposte che non fossero solo emotive alle domande che mi erano sorte. Non ho «pianto e creduto», come successe a René de Chateaubriand. C’è stata una componente di cuore, certamente, ma anche una di erudizione e ricerca, se così si può dire. Tutto ciò si è tradotto in un ritorno, in un riavvicinamento che non è esente dal dubbio. È evidente che – come dice San Paolo – la nostra fede è «scandalo per gli ebrei e follia per i greci» (???). Crediamo in un uomo Dio ucciso, morto e risorto, qualcosa che è al di là di ogni mito, qualcosa di razionalmente imprendibile, così come lo è la fede nella nascita verginale di Gesù. Il mio credere non è esente dal dubbio. Tutto questo però è accompagnato dalla tranquilla consapevolezza che tutto è così: una sensazione molto strana! Alla base di questo sentimento c’è un senso di abbandono fiducioso, per cui posso avere qualche dubbio sulla fede cristiana ma non ho dubbi che noi uomini siamo stati creati per un qualche scopo e che non tutto finisce qui: tutto ciò lo sento vero come so che ora sto parlando con lei. Non oso pensare razionalmente che siamo stati creati per caso: tale convinzione sarebbe un insulto alla nostra intelligenza. Certo, resta il problema del male, della sofferenza, del dolore dell’innocente, problemi insolubili con cui nessuno può venire a patti. Ma capisco che non si può venire a contatto con questi problemi se non si ha una ratio più alta che ci offra un cammino e una direzione verso cui andare per comprendere.

Da studioso e giornalista, ci sono state persone, presenti o defunte, autori, intellettuali, pensatori, magari libri, che l’hanno aiutata in questo cammino di riavvicinamento alla fede?

Sicuramente il primo libro è stato il Vangelo. Un altro testo molto molto interessante, che degli spunti che mi hanno parlato in modo molto eloquente, è stato Cammino di san Josè Maria Escrivà [1]. Il suo messaggio di un cristianesimo così «laico», che concede pochi fronzoli, mi ha molto colpito. Già l’inizio di Cammino – «che la tua vita non sia una vita sterile, lascia traccia» [2] – è un invito ad una fede non melensa, ma che sia intessuta di operare e fare, non una fede dell’apparenza: si tratta di inviti che ancora oggi mi accompagnano. Certamente nel mio cammino di riavvicinamento spirituale c’è stato anche René de Chateaubriand, portatore di un cristianesimo di tutt’altro tipo rispetto a quello di Escrivà, che però – insieme a quello di Pascal – mi ha colpito molto. Poi, moltissimo mi hanno aiutato G. K. Chesterton e C.S. Lewis. Credo che una delle caratteristiche della divinità sia l’umorismo, cioè il saper credere sorridendo.

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[1] José Maria Escrivà, Cammino, Edizioni Ares
, Milano.

[2] Id., p.

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ZENIT Staff

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