del cardinal Angelo Bagnasco
ROMA, venerdì, 27 aprile 2012 (ZENIT.org) – Si è svolta ieri pomeriggio, giovedì 26, l’inaugurazione ufficiale di Flying Angels, fondazione la cui missione è l’assistenza a bambini con gravi patologie, provenienti da Paesi in difficoltà e da nuclei familiari bisognosi.
La fondazione è stata inaugurata dal cardinal Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana, nell’ambito di un incontro svoltosi a Roma, presso l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede.
Il Presidente della Cei ha preso spunto dal versetto del Vangelo di Matteo: “Chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me” per l’intervento che riportiamo di seguito.
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Sono lieto di partecipare a questo significativo incontro che sigla la nascita della Fondazione “Flyings Angels”, con lo scopo di trasferire rapidamente i bambini malati nei vari Ospedali pediatrici, tra i quali il noto Istituto “Gaslini” di Genova. L’iniziativa, promossa da persone genovesi, ha raccolto presto ampi consensi, ed esprime quelle “nuove frontiere della solidarietà” che trovano nel Vangelo la linfa generatrice.
Ringrazio cordialmente gli ideatori appassionati – in particolare il dott. Massimo Pollio e il Dott. Alessandro Garrone – e tutti quanti hanno generosamente aderito, e porgo il mio grato saluto al Sig. Ambasciatore dell’Italia presso la Santa Sede, S.E. Francesco Maria Greco, che ci ospita con convinta partecipazione in questa prestigiosa sede.
Mi è stato chiesto di offrire una riflessione alla luce della parola evangelica: “Chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me” (Mt 18,5). L’affermazione di Gesù suona come una esortazione e una promessa: l’invito ad avere uno sguardo di particolare attenzione verso i piccoli, e la promessa di farsi incontrare in ciascuno di loro, non solo come premio e gaudio, ma anche come presidio e tutela.
Questa iniziativa, che viaggerà sulle ali nei cieli del nostro Mediterraneo e oltre, incontrerà i bambini segnati dalla malattia, quindi dall’esperienza precoce della sofferenza, consapevoli che il dolore di un bimbo tocca in modo particolare anche i genitori e la famiglia intera. Pertanto, l’affermazione di Gesù, l’affronteremo da questa specifica prospettiva.
1. La prima parola che sale imperiosa alla mente è “perché?”. Perché la sofferenza umana, ma soprattutto perché la sofferenza dei bambini? In questa domanda, che l’umanità ha portato con sé attraverso i secoli, è implicita una considerazione: ciò che interpella maggiormente, a volte fino allo scandalo, è la sofferenza dei bambini più che degli adulti. Infatti, si parla del dolore degli innocenti, ritenendo che in qualche modo, tra il male morale che gli adulti compiono e la sofferenza, vi sia un qualche misterioso legame.
Ma per i piccoli innocenti questo non si può dare, proprio perché essi non sono responsabili di nessun male. Se il disordine morale porta sempre un qualche scompiglio nell’armonia delle cose – pensiamo ad esempio al disordine ecologico – l’esperienza, e prima ancora l’intuizione collettiva, ci fa percepire che in qualche modo la sofferenza appartiene a quel disordine, che c’è un legame spesso invisibile tra i diversi ordini: spirituale, etico, psicologico e fisico. E, questa disarmonia, è come l’aria inquinata che tutti respiriamo, vivendo in rapporti di reciproca relazione e costruendo tutti l’habitat umano e cosmico.
Ma se fin qui possiamo anche convenire, di fronte al bambino sofferente il filo della riflessione sembra spezzarsi, sentiamo salire la ribellione, e la domanda ritorna ad imporsi prepotente e ineludibile: perché? L’interrogativo lo poniamo a noi stessi, ne ragioniamo con gli altri, ma inevitabilmente sale fino a Dio.
E’ la vicenda emblematica di Giobbe, come di tante anime nella storia fino ai nostri giorni. Essa diventa ancora più acuta quando sono gli adulti che fanno soffrire i piccoli; quando addirittura – questa follia di dolore e di morte – viene scientificamente organizzata. Dov’è Dio? Ma Dio c’è, non è lontano. E’ accanto e risponde in un modo totalmente divino: dice un’ unica parola, compie un unico atto di vicinanza verso la sofferenza universale, il male radicale e i mali che affliggono l’uomo. E’ Gesù di Nazaret! E’ Lui la sua risposta; è Lui la sua assoluta prossimità all’uomo sofferente, fino a diventare nel piccolo una presenza nascosta ma certa, fino a fare del bambino afflitto un “sacramento” della sua presenza nel mondo.
Gesù! Dio rispetta fino in fondo la libertà dei figli, fino ad apparire impotente davanti all’uomo che sconvolge il suo originario disegno di bene, di armonia e di gioia. Ma non s’arrende. Essendo l’amore la verità di Dio, non s’impone agli uomini, ma neppure li abbandona a se stessi. Li raggiunge nella pienezza dei tempi con il suo cuore, Gesù; assume su di sé il male e la sofferenza del mondo; nel misterium iniquitatis c’entra da uomo e da Dio, ne veste i panni e li lava nel suo sangue.
Non toglie dal mondo il dolore e la morte fisica che Egli stesso ha portato nella sua carne, ma scende fino alla loro radice – il peccato – la scioglie nel fuoco dell’amore e così li apre alla luce, ne fa un altare, dona loro il significato di “ianua coeli”, di “fons rigenerationis”: “Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente. Accoglie con la sua sofferenza quell’interrogativo, che – posto molte volte dagli uomini – è stato espresso, in un certo senso, in modo radicale dal libro di Giobbe.
Cristo, tuttavia, non solo porta con sé la stessa domanda (…) ma porta anche il massimo della possibile risposta a questo interrogativo. La risposta emerge (…) non soltanto con il suo insegnamento, cioè con la Buona Novella, ma prima di tutto con la propria sofferenza (…). E questa è l’ultima, sintetica parola di questo insegnamento: “la parola della croce” (Giovanni Paolo II, Salvifici doloris, n.18).
Entrare con la propria sofferenza nella sofferenza di Cristo, significa dunque partecipare in modo unico alla redenzione dell’universo. Dio è amore, e l’amore genera e chiede libertà; proprio per questa ragione Gesù non ha tolto il dolore e la morte dal mondo, ma l’ha redenta abbracciandola Lui stesso, facendone luogo privilegiato del suo essere sulla terra, del suo incontro con gli uomini, perché il dolore non sia una strada senza uscita, di disperazione, ma diventi spazio di speranza.
2. Vorrei ora soffermarmi su due aspetti. Il primo è questo: la realtà del dolore tocca unicamente chi ne è afflitto e i suoi familiari? Forse si allarga ai vicini che si sentono in qualche modo coinvolti, oppure può avere un raggio più ampio? La questione ha significato perché – a ben vedere – riguarda il rapporto tra la persona e la società: ci chiediamo, infatti, se ciò che vive la singola persona è un fatto meramente privato oppure se ha a che fare anche con la collettività, se deve interessare anche a lei, se deve sentirsi coinvolta oppure solo spettatrice.
Anche su questo dilemma è accesa la luce di Cristo, il Verbo eterno, che rivela al mondo la realtà del Dio uno e trino. Com’è noto, l’unità e la trinità di Dio e l’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù, sono i due misteri principali della nostra fede; e come tali hanno qualcosa da dire alla vita dell’uomo, qualcosa non solo di importante ma di decisivo, altrimenti sarebbero irrilevanti e quindi non interesserebbero a nessuno. Ma così non è: il Logos, parlandoci di Dio, parla anche della nostra vita e del nostro destino.
Se l’uomo proviene da Dio creatore, porta l’impronta di Lui, ne è immagine e somiglianza. E questa impronta si manifesta in due modi: innanzitutto nel suo essere un soggetto unic
o e irripetibile (ognuno è fortemente se stesso), e poi nell’essere un soggetto aperto, in relazione, non solitario. (ognuno è sempre più di se stesso, è anche gli altri). Dio è uno e unico, ma non è solitudine: è “famiglia”, comunione. Per tale motivo, solo nella relazione con il Suo Creatore e con gli altri la persona raggiunge se stessa, compie la sua realizzazione terrena.
E’ questo il fondamento del rapporto tra l’uomo e la società. Per questo la società deve partecipare alla vita dei cittadini con rispetto e responsabilità, sia nelle gioie – ad esempio il matrimonio che fonda una nuova famiglia – come nelle difficoltà e nei dolori: ad esempio il lavoro, la casa, la malattia, la morte. Il rapporto però deve essere reciproco, nel senso che il soggetto ha verso la società dei diritti e dei doveri e così lo Stato.
Non è né coerente né corrispondente alla costituzione dell’uomo avere delle pretese nei confronti della società, e nello stesso tempo tenerla fuori totalmente invocando la privatezza assoluta. Una società di individui-monadi è solo un agglomerato, un coacervo di interessi, di sensibilità, di scopi individuali, dove la legge avrà il compito di tenere a bada i privati appetiti, anziché promuovere il bene comune.
Questo richiede sempre leggi giuste ed eque, ma esige anche un’anima che non dipende dalla norma, ma dal cuore: l’amore. Per questa ragione, il Santo Padre Benedetto XVI ricorda che nessuna buona legislazione potrà fare a meno della “caritas”, di quella legge non scritta che nella storia ha generato forme di dedizione, volontariato, eroismo. La vita di ogni persona è un bene per il soggetto, ma anche per la società intera, è un tesoro per tutti. La persona non appartiene alla società come la parte al tutto, poiché ognuno – per principio – ha un valore per se stesso e non può essere strumentalizzato da nessuno; ma nello stesso tempo, di fatto, ognuno si realizza con e grazie agli altri.
La visione di San Tommaso è estremamente chiara e traduce la dottrina della Chiesa cha nasce, al riguardo, proprio dal mistero trinitario. La stessa Costituzione italiana riconosce laicamente la natura relazionale dell’uomo e le sue conseguenze rispetto alla società. Dentro a questo quadro fondativo, dobbiamo esaminare il quesito sopra esposto: l’appuntamento inevitabile con il dolore tocca esclusivamente l’individuo oppure ha un’eco più ampia e quanto è ampia?
In forza di quanto sopra abbiamo accennato, possiamo rispondere che la sofferenza di uno tocca tutti, non solo l’interessato e i suoi cari, tocca la società intera nella sua legislazione e nei suoi apparati. Come a dire, in sintesi, che bisogna portarlo insieme. Si apre l’orizzonte della solidarietà tra uomini, famiglie, società e Stato.
Vorrei però mettere in evidenza un aspetto che potrebbe sfuggire ad un primo sguardo ma che ritengo fondamentale. Non si tratta solo di un dovere che gli altri hanno – ai diversi livelli di rapporto e di responsabilità – verso i sofferenti: quasi che tutto si riducesse ad un buon impianto organizzativo di intervento affinché il malato sia sostenuto e accompagnato. E’ in gioco anche un altro aspetto: il malato, colui che ha bisogno degli altri per uscire dalla difficoltà o semplicemtne per portarla, di per sé è una provocazione, è una chiamata affinché la società stessa assuma lui così com’è.
Se la società è fatta di persone, e senza di loro non sarebbe nulla, essa ha il dovere di accogliere se stessa nelle singole persone che la compongono e che la fanno essere, così come le persone sono, senza selezioni di intelligenza, di censo, di salute: in una parola di efficienza. Altrimenti non sarebbe una società umana, ma una struttura che discrimina in base alla legge dei più forti. Questa accoglienza operosa che cura e si prende cura non è frutto solo della giustizia, ma è animata dall’amore.
La presenza dell’altro che, con la sua indigenza si presenta a noi, è dunque un richiamo, una richiesta di amore: quindi stimola e rende possibile lo sprigionarsi di quella riserva di dedizione e sacrificio, di fedeltà e dono, che – se non ci fosse la sollecitazione concreta e urgente – resterebbe rinchiusa e forse addirittura sconosciuta a noi stessi. Di fronte alla sofferenza altrui non dobbiamo avere paura di non essere capaci di risposte: in ciascuno esistono, a volte latenti, potenzialità inesplorate e sorprendenti di bene.
La società nel suo insieme, e lo Stato nelle sue proprie forme, devono accettare la sfida: ciò significa non lasciare soli i malati e i loro familiari, consapevoli che l’unica risposta coerente è farsi carico in ogni modo e con ogni mezzo di un patrimonio unico e irrinunciabile che è la vita di ogni persona. Non ci sono scorciatoie, anche se spesso sono presentate e propagate col volto di una falsa pietà. La malattia non si risolve eliminando il malato, ma curando e accompagnando, sapendo che la malattia più temuta e il dolore più grande sono la solitudine e l’abbandono.
3. Il secondo aspetto, sul quale vorrei aggiungere un’ultima parola, riguarda il dolore fisico dei bambini. Se il sofferente domanda alla comunità intera il coinvolgimento con la propria esperienza in nome di quella solidarietà che qualifica una vera società, ci chiediamo ora se la sofferenza abbia qualcosa di ulteriore da dire quando tocca i bambini.
E’ certo che tutto ciò che infierisce sui piccoli suscita un supplemento di reazione emotiva, di slancio generoso per lanciarsi a lenire e sanare, per prendersi cura di chi, se abbandonato a se stesso, si spegnerebbe. Vorrei ricordare innanzitutto il particolarissimo coinvolgimento dei genitori, il dramma di papà e mamma, parenti, che affrontano qualunque sacrificio di salute, di lavoro, di famiglia, di vita sociale, pur di stare vicini ai loro bambini. Non di rado – come succede per il Gaslini – devono risiedere anche per mesi e, nel seguito, ritornare per anni.
La lontananza dagli affetti rende più grave ogni malattia e pesante ogni sofferenza. Se questo vale per tutti, a maggior ragione vale per i bambini. Urge così la necessità che i genitori non si sentano soli con il loro dramma, soli a portare la croce del figlio per il quale vorrebbero dare la loro stessa vita.
Portare insieme, camminare insieme: si apre lo sconfinato campo della tenerezza di tutti coloro che si accostano ai bambini e alle loro famiglie. E insieme, si apre il campo sempre crescente della scienza, della tecnologia e della ricerca. Ma è chiamato in causa anche il tema delle strutture di cura, dell’ organizzazione ispirata ai bambini e ai loro genitori. E’ in gioco, infine, l’impiego delle risorse e della continuità temporale delle cure e dell’assistenza. Emerge una serie di elementi che non sono separabili tra loro, pena la contraddizione tra le dichiarazioni di principio e i fatti, i sentimenti e le azioni.
Senza dubbio s’ impone un uso responsabile delle risorse, e questo non solo perché siamo in periodo di grave crisi; ma è anche evidente che se diventasse decisivo un approccio meramente finanziario alla salute, la società perderebbe quel livello di umanità che deve assolutamente avere per non diventare ingiusta e, peggio, disumana.
Che di fatto seleziona la stessa dignità della vita, lasciando andare alla deriva i più deboli e indifesi, che senza dubbio richiedono alla collettività un maggiore impegno di risorse. E quando una società s’incammina verso la trascuratezza della vita debole, o peggio verso la sua negazione seppure mascherata con belle parole e nobili intenzioni dichiarate, “finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi al servizio del vero bene dell’uomo.
Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n.28). Non dobbiamo dimenticare qu
esto forte richiamo del Santo Padre, poiché, senza il reale rispetto dei valori “primi” – detti anche non negoziabili – è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe sostenere l’uomo nell’intero arco della sua esistenza, ma che in realtà lo abbandona nei momenti di maggiore fragilità.
Ogni altro valore necessario al bene della persona, soprattutto se piccola e indifesa, germoglia infatti e prende linfa dai valori fondativi della vita, della famiglia naturale, della libertà educativa e di religione. La stessa coscienza universale ha ormai acquisito e sancito nelle Carte internazionali una elevata sensibilità verso i più poveri e i più deboli della famiglia umana.
E ci chiediamo: chi è più debole e fragile dei bambini che, abbandonati a se stessi, si spengono? E – permettete che approfondisca la categoria della fragilità – tra i bambini chi è più indifeso di coloro che non hanno ancora voce per affermare il proprio diritto? E che spesso non hanno ancora neppure un volto da opporre?…
Vittime invisibili, ma reali! E, per somiglianza, come non ricordare quanti la voce e la coscienza non l’hanno più, come i malati cosiddetti terminali? Non meritano forse l’attenzione non solo dei familiari e di tanti volontari che sono come il sale buono, ma anche della società intera e dello Stato? Un’attenzione che mai può arrogarsi il diritto di decidere chi merita ancora di vivere e chi, invece, deve essere abbandonato a se stesso. Se queste vite, che somigliano a dei lumini appena o ancora accesi, fossero spente, quanto buio scenderebbe sulla società intera!
E’ – lo comprendiamo – una questione di civiltà, quella vera, che si fa carico della fragilità anche con sacrifici non lievi, ma sempre possibili e doverosi. E’ in gioco il bene delle singole persone, a cominciare dai più piccoli; ma si tratta anche dell’umanità sociale di un popolo, un’umanità che non brandisce i problemi scaricando ogni soluzione dagli altri, ma porta il proprio contributo. Il nostro Paese questa responsabilità la sente viva nella propria anima e nella sua storia: ma è da non perdere, prestando ascolto a parole ammantate di libertà, e che rispondono invero a visioni oscure di efficienza, di mercato, e di comodo.
Grazie per il vostro ascolto e per l’amore operoso e appassionato che ha ispirato questa iniziativa per i bambini e per le loro famiglie: essa va ad arricchire il tesoro di solidarietà evangelica e umana che sostanzia anche oggi il nostro Paese.