Il segno del Buon Pastore

Vangelo della IV Domenica di Pasqua

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di padre Angelo del Favero*

ROMA, giovedì, 26 aprile 2012 (ZENIT.org).- Gv 10,11-18

In quel tempo, Gesù disse: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore da’ la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do’ la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.

Per questo il Padre mi ama: perché io do’ la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do’ da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”.

1 Gv 3,1-2

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto Lui”.

Il quarto vangelo racconta alcuni grandi segni (sette) compiuti da Gesù per suscitare la fede in Lui e nel Padre che lo ha mandato. Giovanni infatti riassume così il suo libro: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,30-31).

In realtà, non sono solo sette i segni descritti da Giovanni, se consideriamo il “segno dei segni” che egli ci presenta nel capitolo 10, la definizione che Gesù da’ di se stesso: “Io sono il buon pastore” (Gv 10,11).

E’ questa una vera e propria ‘carta di identità’ del Signore, nella quale l’evangelista compendia anche i segni non esplicitamente raccontati nel suo libro, che sono tipici della figura biblica del pastore (cf Is 40,10s; Ger 23,1-4; Ez 34,2-10). Essi sono: la condivisione esistenziale e l’appartenenza reciproca, la provvidenza e l’abbondanza, la custodia premurosa, l’ansia per la pecora ferita o smarrita, la tenerezza, la compassione, la sollecitudine per le necessità fisiche, la guida sicura, la difesa dai nemici e dai pericoli, l’amore assoluto per ognuna delle pecore e la prontezza a dare la vita per essa e per il gregge.

E’ l’immagine meravigliosa rappresentata nel Salmo 23/22 che Giovanni traduce soprattutto in termini di relazione personale con il Signore:“conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14).

Queste ultime parole fanno pensare a due momenti precisi della vita del gregge: “al mattino presto, il pastore del villaggio si incammina alla testa delle pecore e delle capre che gli sono state portate; alla sera le conduce al abbeverarsi alla fonte; là ogni singolo proprietario raggruppa le proprie bestie facendosi riconoscere con uno schiocco delle labbra” (X. Leon-Dufour, Dizionario del N.T., p. 407); essi sembrano corrispondere ai due momenti liturgici delle Lodi e dei Vespri.

Culturalmente, si sa, tale immagine arcaica e tranquilla è oggi piuttosto estranea, e rischia di non essere significativa per chi vive in un contesto sociale e cittadino come il nostro, così frenetico e diverso da quello dei beduini palestinesi.

Vediamo allora se è possibile “recuperarla” ed attualizzarla.

Nella Lettera apostolica “Porta fidei” (11 ottobre 2011), leggiamo parole che traducono la parabola del buon Pastore in termini a noi più comuni e familiari.

Esortando a tenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, il Papa dice: “..in Lui trova compimento ogni travaglio ed anelito del cuore umano. La gioia dell’amore, la risposta al dramma della sofferenza e del dolore, la forza del perdono davanti all’offesa ricevuta e la vittoria della vita dinanzi al vuoto della morte, tutto trova compimento nel mistero della Sua incarnazione, del Suo farsi uomo, del condividere con noi la debolezza umana per trasformarla con la potenza della sua Risurrezione” (Benedetto XVI, La porta della fede, n.13).

Il cuore umano è oggi più che mai una pecora smarrita (Mt 18,12-14)e Matteo sottolinea un particolare drammatico che Giovanni non dice: la ricerca del pastore potrebbe essere vana (“se riesce a trovarla” – v.13). Ma non per questo egli esita, anzi: proprio per scongiurare una simile eventualità (sulle tracce della pecora c’è anche il lupo), il pastore non indugia con le altre pecore e parte subito.

Il messaggio va oggi nella direzione della nuova evangelizzazione: si tratta della sorte eterna dei nostri fratelli, smarriti nel labirinto menzognero e senza sbocco del relativismo, ingannati dalle illusioni dello scientismo, induriti (per deformazione e non-formazione) nella coscienza al punto da non udire più perfino la voce naturale del Pastore Eterno che li ha creati, come Giovanni proclama oggi: “quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!”. (1 Gv 3,1-2).

Concludo con una piccola testimonianza.

Giorni fa, nella Casa di Accoglienza della mia città, il mio cuore ‘ha udito’ la voce del Buon Pastore.

Quando sono entrato nella stanza, il piccolo Gabriel (5 anni), in attesa che la mamma tornasse dal lavoro, se ne stava al computer con il mouse nella mano destra, e cliccava qua e la sui cartoni della Walt Disney. Entusiasmato dalla cosa, gli ho chiesto se potevamo vedere insieme ‘Biancaneve e i sette nani’.

In un attimo, eccomi davanti alla perfida regina, allo specchio delle sue brame e all’incantevole bellezza della fanciulla vestita di stracci, circondata da candide colombe.

Dopo almeno un’ora di visione non certo continua (dato che Gabriel non mollava il mouse) ho accennato ad alzarmi per uscire, ma lui come una di quelle colombine del film mi ha guardato con due occhi irresistibili, chiedendomi di restare lì come se la mia presenza gli fosse assolutamente necessaria.

Allora ho pensato: ecco, il “buon pastore” è simile a Gabriel. Gabriel ha la mamma, ma ha bisogno di stare con me per non essere solo. Gesù ha il Padre, ma ogni giorno desidera stare con me, per condividere tutto ciò che faccio, tutto ciò che penso, tutto ciò che sento e sono, perché è simile a me. Anche se è risorto rimane uomo come me, e mi offre la sua amicizia e la sua vita per darmi la sicurezza e la gioia della sua intimità: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore” (Gv 10,14-15).

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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ZENIT Staff

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