di Antonio D’Angiò
ROMA, sabato, 21 aprile 2012 (ZENIT.org) - Melania Gaia Mazzucco, insieme a Vittorio Sgarbi, è tra le curatrici, della mostra sul Tintoretto in corso alle Scuderie del Quirinale di Roma sino al 10 giugno 2012.
La scrittrice romana è l’autrice del bel romanzo “La lunga attesa dell’angelo” (pubblicato a fine 2008) che narra, in forma romanzata, la vita del pittore veneziano attraverso i ricordi negli ultimi quindici giorni della sua vita, dal 17 al 31 maggio 1594 (…quindici giorni di febbre). La parte storica, invece, è contenuta nell’altra pubblicazione, edita sempre da Rizzoli, “Jacopo Tintoretto e i suoi figli. Biografia di una famiglia veneziana”.
Come già avvenuto in altri libri della Mazzucco, (ad esempio le ventiquattro ore di “Un giorno perfetto”) la scansione temporale degli aventi possiede una sua coinvolgente originalità ed è per questo motivo che la lettura (o rilettura) de “La lunga attesa dell’angelo” può essere un interessante immaginifico passaggio propedeutico alla visita della mostra, per potersi in qualche modo immergere nel tempo e nella creazione delle opere pittoriche nello studio del Tintoretto.
Su ZENIT del 31 marzo scorso, già Maria Cristina Fiocchi e Antonio Gaspari ci hanno raccontato della mostra e della Venezia dell’epoca e vogliamo partire proprio da una affermazione contenuta nell’articolo per una breve riflessione sull’impresa Tintoretto: “la sua bottega divenne un’impresa che continuò a produrre arte per più di 52 anni dopo la sua morte”.
Proprio all’interno della mostra è presente una sezione, nella sala 9, intitolata all’impresa Tintoretto così introdotta dalla Mazzucco: “impiegava parecchie persone, ciascuna in un compito specifico e necessaria a garantire la produzione di quadri che il titolare non poteva dipingere da sé (…). I suoi assistenti sono pittori fiamminghi, che non sempre sono stati identificati ma soprattutto membri della sua famiglia.”
Da qui possiamo creare un ponte ideale con le pagine del libro, scandite nei ricordi del 24 maggio (ottavo giorno di febbre), nelle quali il Tintoretto racconta delle propensioni, delle inettitudini, delle inquietudini e delle fedeltà dei suoi figli Marietta, Marco e Domenico. Degli scontri, anche furiosi tra i ragazzi, e della volontà del Tintoretto di essere, nello stesso tempo, buon genitore e buon imprenditore.
Buon genitore quando intende non ripianare i debiti da vita dissipata del figlio Marco sollecitati dal saggio ebreo Salomon venuto a richiedere il prestito insieme al figlio Menachem; buon imprenditore quando dà fiducia a chi si mostra più testardo, più intraprendente, più geniale senza per questo far mancare le prove riparatrici a chi è meno propenso all’arte.
In quel 24 maggio, uno dei passaggi più intensi anche perché vi si ritrova molta Venezia dell’epoca per le sue contrapposizioni religiose, è quando il vecchio Salamon racconta al Tintoretto la storiella ebraica dell’uccello migratore. Con questa storia, che indurrà il pittore veneziano a riconsiderare la sua posizione sul debito del figlio, la Mazzucco fa dire a Salomon che “questa non è una storia sulla salvezza, né sulla punizione dei torti o sulla giustizia, ma sulla paternità”.
Questo ruolo paterno che diventa ancor più complesso quando s’inserisce anche nell’ambito della professione, riuscendo a distinguere in modo certo più difficoltoso tra giusti meriti e punizioni opportune, sia per l’educazione che per il lavoro.
Ruolo che diviene anche uno degli snodi importanti dell’economia italiana, al fine di aumentare la probabilità (orientativamente intorno al 15% nel 2007) che un’impresa familiare sopravviva alla terza generazione del suo fondatore.