di Eugenio Fizzotti
ROMA, mercoledì, 4 aprile 2012 (ZENIT.org) - Considerandoli fedeli alla vocazione divina, perseveranti nella fede e nell’impegno, capaci di rispondere con gioia al Padre che continua a chiamarli ad essere pastori nel “bel pastore”, che è Gesù Cristo, in Spirito Santo e potenza d’amore, e riconoscendo che, pur avanti negli anni, la freschezza spirituale continua a segnare i giorni nei quali la voce del Buon Pastore entrò nella loro vita di fanciulli, di ragazzi, di adolescenti, di giovani, di adulti, Mons. Vincenzo Bertolone, Arcivescovo di Catanzaro-Squillace ha consegnato ai sacerdoti del clero secolare e del clero regolare della sua Diocesi un’originale e profonda riflessione, finalizzata a ringraziarli fraternamente dell’operosità quotidiana, della testimonianza di accoglienza della Grazia divina e della risposta generosa che offrono nella libertà, pur tra le mille difficoltà, materiali, psicologiche, morali e perfino spirituali, che il tempo e il contesto comportano.
In forma originale l’Arcivescovo sceglie tre verbi che chiariscono lo specifico modo di essere pastori, cioè di condurre al pascolo il popolo di Dio e dare la propria vita per tutti coloro che si è chiamati a guidare alle fonti delle acque della vita: educare, servire, curare.
Il primo verbo, articolatoanche nella forma educarsi per educare, fa riferimento alle perplessità, ai disorientamenti, alle crisi e alle seduzioni che possono essere oggetto e soggetto del parlare e del vivere quotidiano anche dei presbiteri, oltre che dei fedeli, e «porta spesso a perdere di vista il bonum e a volte a smarrirsi fino a seguire il malum», dovuto al fatto che «si fa fatica e si stenta ad assumere e interpretare bene il compito di “padri nella fede”, soprattutto di mantenere quella giusta asimmetria, richiesta dall’esercizio di un ministero ordinato, affidato per il bene di tutti».
Gli influssi della cultura e le nuove tecniche d’informazione e di comunicazione inoculano, per Mons. Bertolone, «la tentazione di non essere del tutto estranei rispetto a certe mode le quali, invece di farci vivere al meglio la nostra vita presbiterale, evidenziano piuttosto gli aspetti meno belli e indulgono a compromessi sullo stile di vita, a scelte di campo parziali in ambito politico, a visioni, letture o spettacoli indecorosi». Ecco perché occorre ri-educarsi «al genuino senso della libertà cristiana, che è scelta tra bene e meglio, non tra bene e male, rigenerando il proprio orientamento etico fondamentale, che deve sempre ripartire dall’Assoluto e non dall’autonomia assoluta del soggetto umano».
La libertà di smascherare tutte le forme subdole d’idolatria mondana alimenta il coraggio di assumersi la responsabilità di guidare le comunità e di vivere il ministero apostolico radicato nella scelta assoluta di Dio. E ciò è autenticamente possibile nella misura in cui si riconosce che tutta la vita di Gesù costituisce il parametro del proprio modo di agire e dell’essere consacrati nel ministero ordinato. Gesù, infatti, ha inaugurato il regno affrontando le forze malvagie dell’antiregno e ha subìto per il regno la morte, ma vive risuscitato alla destra del Padre.
Il secondo verbo adottato da Mons. Bertolone è servire, al quale, dopo l’ordinazione sacerdotale,«si scende dalla superficie delle cose alla loro profondità e si comprende la portata di quel volere-dovere essere pastori poveri, casti e obbedienti» non dominando le persone affidate, ma riconquistando il “potere” della capacità profetica, ovvero l’attitudine a giudicare la storia e le cose dal punto di vista di Dio, suscitando in ogni essere umano una fede incondizionata al Padre, fidandosi pienamente di un Dio affidabile che ha detto un “sì” irrevocabile all’uomo, annunziando a tutti che Dio è tenero Padre.
Ecco perché il presbitero «deve imparare a stare con la gente come uno che serve (Lc 22,26), deve percepirne i bisogni, condividerne la vita. Deve poter svegliare l’aurora, essere in grado di sentire i gemiti dello Spirito nel cuore della gente oppressa. Per annunziare il regno che viene, dev’essere distaccato da ogni aspetto caduco di questo mondo, il cui unico dio è l’idolo del denaro-forza-successo».
Chiamati ad essere pastori delle comunità che il Signore ha affidato loro, i presbiteri non sono «padroni incondizionati della propria comunità, né tanto meno delle coscienze, così come non sono soltanto strateghi con capacità manageriali né direttori di un’azienda che mira al profitto, ma sono umili tessitori di novità e di comunione, che sanno vedere oltre il banale quotidiano, indirizzando i fratelli, anche mediante la celebrazione della riconciliazione e la direzione spirituale, a vivere nel concreto quelle scelte radicali senza le quali non c’è adesione cristiana». Grazie all’ascolto manifestano la pienezza esistenziale dell’umanità, sono capaci di amore gratuito, di oblatività, di dedizione gratuita, di accoglienza, di accettazione incondizionata degli altri e accompagnano chi porta su di sé la sofferenza e il dolore di vivere, con lo sguardo fisso sul Signore.
Attraverso l’amore della povertà i presbiteri per l’Arcivescovo di Catanzaro-Squillace «adottano nei fatti un sobrio stile di vita, coltivano il senso del distacco e mettono al primo posto Dio, la sua adorabile volontà, gli ultimi e i poveri. In tal modo, vivendo nella povertà casta e nella castità povera, stanno accanto a chi non li investe di nulla e, non esigendo prestazioni, fanno ascolto delle sue attese, tenendo ben presente che l’ascolto e il dialogo sono le due coordinate su cui sono chiamati a operare nella società per la costruzione del Regno di Dio».
Passando al terzo verbo, curare, Mons. Bertolone sottolinea che il compito primordiale dei presbiteri è quello di prendersi cura, di avere a cuore, di portare la medicina del Signore, di prestar cure adeguate (spirituali, sacramentali e materiali) ai fratelli e sorelle. E conferma questo citando San Carlo Borromeo il quale esortava il presbitero a «non trascurare la cura di se stesso, e non darsi agli altri fino al punto che non rimanga nulla di sé a se stesso».
Il ministero presbiterale è dunque efficacemente fecondo se si fa fruttare la ricchezza dei doni che il Signore elargisce con il sacro Ordine e se si ama senza mai strumentalizzare l’altro, ma con un totale, insostituibile e unico disinteresse, la cui gratificazione sarà sempre un dono libero degli altri e mai una sorta di ricompensa dovuta e dunque pretesa.
Prendendo in esame nella prospettiva della cura pastorale il carisma del celibato, da custodire come tesoro prezioso e come emblema della dedizione totale e gratuita agli altri, Mons. Bertolone sottolinea che «vivere l’amore è un segno eloquente tra la gente che questa relazione, proposta da Cristo, non è di ostacolo a vivere l’amore pienamente, senza rinunciare alla propria umanità. Comincia da qui, dall’osare un amore non-divoratore, quella rinuncia a ruoli, a competizioni, a maschere…, che rende possibile la purificazione radicale dei rapporti interumani, soprattutto nella vita quotidiana di una comunità cristiana». E non gli dispiace di richiamare che l’obbedienza al vescovo, partendo dalla coscienza di appartenere a una Chiesa e ad un solo regno da costruire, può essere anche un segno per la famiglia e per la comunità, perché «consiste nella testimonianza che si vive veramente da umani quando l’orizzonte delle scelte non è l’“io”, ma il “noi” e la coscienza sceglie liberamente, lasciandosi illuminare dall’azione dello Spirito di Dio».
L’ascolto attento, nell’intento di dover formulare una risposta, consente quindi di riscoprire la necess ità di uno sguardo d’insieme e l’insopprimibile discernimento comunitario per cercare la volontà di Dio, come anche la capacità del proprio fiat, fanno uscire dalle confusioni esistenziali o apostoliche e aiutano gli uomini e le donne a diventare popolo di Dio, accompagnandoli sulla strada della sequela del Signore.
A questo punto Mons. Bertolone ricorda che la realtà collegiale costituisce la dimensione fondamentale della vita sia sacerdotale che episcopale. E in tale prospettiva risulta di particolare valore la relazione con i compagni di Seminario, con i confratelli nel ministero, con i laici da accompagnare sulle vie della santificazione e, mentre è un grave errore (o peccato) separarsi per un motivo o un altro dalla vita del presbiterio, entrando in una pericolosa condizione di solitudine, non aiutando gli altri e dimostrando indifferenza per il loro cammino, risulta particolarmente bella la vita communis di diversi preti, che guidano insieme la comunità e alla quale ciascuno può apportare il proprio carisma specifico!
Occorre pertanto che i presbiteri compiano una rivoluzione della libertà, che sarà essenzialmente un’esplosione delle forze spirituali del mondo, analoga a quella di cui fu artefice e simbolo il Cristo storico. Ad essi, infatti, è affidato il delicato e appassionante compito di essere, per Cristo, con Cristo e in Cristo, pastori belli e buoni, che diffondono speranza e manifestano la gioia di appartenere a Cristo. Per sempre!