ROMA, martedì, 30 agosto 2011 (ZENIT.org).- Negli istituti missionari italiani impegnati in Giappone, come il Pime e i Saveriani, si discute sulla missione nel Paese del Sol Levante: è proprio necessario continuare a mandare missionari in un paese dove la Chiesa è ormai fondata e ha un buon numero di vocazioni alla vita consacrata? Domanda interessante, alla quale i missionari che sono in Giappone rispondono dicendo che la missione giapponese è, come dire, profetica per il nostro Occidente e in tutto il mondo, che sarà sempre più secolarizzato e laicizzato.
Chiedo a padre Alberto Di Bello (40 anni in Giappone intervistato a Milano due mesi fa) se pensa che il Giappone ha ancora bisogno di Gesù Cristo. Risponde: “Il giapponese è un grande popolo,lavoratore, unito, obbediente alle autorità. E’ un popolo religioso, che crede in Dio, ma non lo conosce. Lo immagina come un qualcosa di vago, inafferrabile, inconoscibile, che è nella natura, nel bello, nell’armonia delle cose. Ha bisogno della fede che Dio è persona, che si è rivelato in Gesù Cristo. Capiscono bene il comandamento di amare il prossimo, non capiscono quello di amare Dio. I cristiani, a poco a poco, entrano in questa visione, ma è un messaggio difficile da fare accettare. Per loro tutto è divinità e poi magari niente è divinità”.
“Per i giapponesi la vita dopo la morte è come una goccia d’acqua che ritorna nel mare. L’uomo non è la persona vivente oggi che rimane tale e quale e gode della vita eterna con Dio. Ma è un elemento della natura, quando muore ritorna alla natura e perde la sua individualità, la sua identità. Quindi la persona umana ha un valore relativo, non assoluto. Oggi serve alla società, ma domani non servirà più. Per questo è difficile capire che Dio ci ama. Possibile che quel Dio che ha creato tutto possa amare il piccolo uomo, i miliardi di uomini che passano come tutte le cose della natura che sono state create?”.
“Questo nulla toglie all’intelligenza e ai buoni sentimenti del popolo giapponese: ad esempio il servizio al bene comune, l’onestà nel lavoro, il senso della fedeltà alla parola data, il rispetto e la devozione per gli anziani, anzi il culto degli antenati, il senso di disciplina nella scuola, nella ditta, nello stato. Il contributo fondamentale che il cristianesimo e la modernità portano al Giappone è il valore assoluto della singola persona umana. Lo sviluppo tecnico-scientifico del Giappone ha portato benessere e innalzamento del livello di vita, ma ha un grosso limite che riguarda la persona, spesso sacrificata alla società e allo sviluppo. In Giappone, più che una società per l’individuo, c’è l’individuo che lavora per la società”.
“Lo si vede anche nell’impianto urbanistico delle grandi città, che non hanno luoghi dove la gente si possa incontrare o anche solo riposarsi, pensare, pregare, chiacchierare. I centri di incontro sono le stazioni ferroviarie e della metropolitana, i grandi magazzini, i ristoranti, i luoghi di divertimento. Il giapponese, super-impegnato, ha poco spazio per coltivare se stesso e spesso spreca in modo banale e alienante le poche ore libere, giocando ad esempio nelle sale di 'pachinko' (bigliardini elettronici) o con tutte le altre novità elettroniche che portano in un mondo virtuale e non reale. Soprattutto i giovani che studiano o lavorano vivono spesso lontani dalla famiglia, hanno poche possibilità di incontrare amici, di socializzare. Le chiese cattoliche e le parrocchie sono apprezzate e ricercate, anche perché offrono spazi e occasioni per l’incontro fra amici, la riflessione, la preghiera, la cultura”.
“Il contributo del cristianesimo diventa così un’esigenza di vita. Il Giappone moderno, sorto dalla macerie della seconda guerra mondiale, non sarebbe quello che è se non ci fossero le Chiese cristiane. E questo vale soprattutto perché il cristianesimo ha portato in Giappone il concetto del valore assoluto della singola persona umana e di uno sviluppo materiale che deve servire ad ogni persona non solo per il benessere e l’abbondanza dei beni materiali, ma per l’elevazione culturale e spirituale”.
“Le religioni tradizionali giapponesi – continua padre Di Bello – hanno contribuito a preparare una base per lo sviluppo della nazione e della società, trascurando la persona umana. Lo shintoismo ha insegnato al giapponese la divinità della natura, nella quale c’è Dio. Il confucianesimo, ripreso dalla Cina, ha abituato il giapponese ad una visione statica dell’universo e della società, dove la suprema norma morale è quella del rispetto e dell’obbedienza per mantenere l‘armonia tra cielo e terra, tra superiori e sudditi, tra politica ed economia. Secondo la morale confuciana ciascuno deve svolgere il proprio lavoro col massimo impegno nel posto che gli è stato assegnato. Il buddhismo poi, insegnando il distacco da se stessi, il disprezzo delle passioni e delle idee personali, considerate come perniciose illusioni, rende l’individuo disposto a tutto e oltremodo paziente”.
“Il giapponese è figlio di queste religioni che lo rendono ottimo lavoratore, senza grandi ambizioni, sobrio, obbediente alle direttive. In una società tecnologica, dove tutto deve funzionare come una macchina, il giapponese è l’elemento ideale, perché si muove in gruppo. Anche questo è un aspetto della natura, della vita familiare. La gente ha una forte coscienza unitaria di popolo, ma una scarsa coscienza dei diritti della persona. La vita comune comincia nella famiglia, continua nella scuola e finisce nella ditta, concepita come una grande famiglia. Lo spirito di collaborazione che predomina nella ditta, rende il lavoro altamente efficiente e produttivo. Il successo della ditta per uno lavora è considerato un ideale di vita per il quale vale la pena di sacrificarsi, anche con ore di lavoro straordinario, spesso poco o nulla retribuito”.
“Tutto questo rivela l’influsso delle religioni tradizionali, in gran parte positivo, sul comportamento del giapponese. La morale buddhista ha educato ad una viva coscienza dei propri doveri, più che dei propri diritti. Il cristianesimo, entrando in Giappone attraverso le moderne missioni cristiane e l’influsso dell’Occidente, ha portato in Giappone il concetto fondamentale del mondo moderno, che si esprime ad esempio nella 'Carta dei Diritti dell’uomo' varata dall’Onu nel 1948: il valore assoluto della singola persona umana. La società, lo stato, la patria è a servizio della persona umana, non la persona a servizio della società, dello stato, della patria”.
“E’ facile capire perché il Vangelo e la persona di Gesù Cristo sono importanti anche per il Giappone. Maritain diceva, più di 60 anni fa, che lo sviluppo di un popolo dipende essenzialmente del concetto che questo popolo ha di Dio, dal concetto che si fa di Dio. Da questo concetto discende il rapporto con gli altri uomini, con la natura e con la storia. Ecco perché i missionari che sono in Giappone, e la stessa Chiesa giapponese, sostengono che l’invio di missionari dall’estero è ancora e sempre più importante. Specialmente oggi quando più di mezzo milione di lavoratori e famiglie di cattolici vengono in Giappone e hanno assoluto bisogno di assistenza religiosa da parte della Chiesa universale”.
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*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1964) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l'Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.