di Paul De Maeyer
ROMA, domenica, 17 aprile 2011 (ZENIT.org).- “Questo non è stato un mese buono per i dissidenti in Cina”. Ad osservarlo è Joshua Rosenzweig, della Duihua Foundation (un’organizzazione statunitense per i diritti umani in Cina), in un articolo pubblicato il 28 marzo scorso sul Wall Street Journal, soffermandosi sulla dura repressione contro gli oppositori del regime nel Paese. Ciò che secondo l’autore distingue la nuova ondata repressiva da quelle precedenti è la sua “lampante illegalità”. Mentre alcuni degli arrestati hanno avuto almeno un processo – così ribadisce lo studioso -, molti altri non hanno avuto questa fortuna: sono “semplicemente scomparsi”.
Secondo il gruppo Chinese Human Rights Defenders (CHRD, con sede a Hong Kong), sono almeno 54 i dissidenti, attivisti per i diritti umani, intellettuali ed avvocati arrestati finora. Giovedì 7 aprile è toccato alla giurista Ni Yulan, che insieme con suo marito Dong Jiqin si oppone da anni agli sfratti illegali. La donna, costretta alla sedia a rotelle dopo essere stata malmenata dalla polizia nel 2002, è stata arrestata con il sospetto di “causare disordini” (Agence France-Presse, 15 aprile).
Il caso che ha provocato forse più clamore è stato l’arresto di Ai Weiwei, uno dei protagonisti della scena artistica internazionale. Il dissidente cinquantatreenne è stato fermato domenica 3 aprile all’aeroporto della capitale Pechino prima di imbarcarsi su un volo per Hong Kong. Da allora non si è saputo quasi più nulla di lui. Come ha riferito il Guardian (15 aprile), da giovedì è scomparso anche un avvocato legato all’artista, Liu Xiaoyuan. E dal 9 aprile non è più possibile mettersi in contatto con il designer Liu Zhenggang, che lavorava per FAKE, cioè lo studio di Ai Weiwei a Pechino. Mancano all’appello anche un amico di Ai Weiwei, Wen Tao, l’autista e cugino Zhang Jinsong, e il commercialista Hu Mingfen.
Ad interrompere l’assordante silenzio governativo è stato giovedì 7 aprile il portavoce del ministero degli Esteri, Hong Lei. “Secondo la mia comprensione, Ai Weiwei è sospettato di crimini economici, e il Bureau della pubblica sicurezza sta conducendo un’inchiesta secondo quanto previsto dalla legge”, ha detto, ribadendo che la Cina è uno Stato di diritto (The New York Times, 7 aprile). Come ricordato dal quotidiano, il termine “polivalente” di “crimini economici” è frequentemente usato dalla polizia cinese per arrestare e mandare in galera persone considerate dal Partito Comunista una “minaccia politica” . L’accusa è stata definita “ridicola” dalla madre settantottenne dell’artista, Gao Ying. “Devono dire alla famiglia perché e dove stanno tenendo prigioniero mio figlio”, ha detto la donna: “Non hanno il diritto di tenerci sulla corda”.
Nei giorni scorsi, il quotidiano Wen Wei Po – di Hong Kong, ma conosciuto per i suoi stretti legami con il governo centrale – ha aggiunto un’altra accusa. Ai Weiwei sarebbe sospettato di diffondere “pornografia” su Internet. Inoltre, il famosissimo artista concettuale è accusato di bigamia e di avere un figlio illegittimo. La sorella di Ai, Gao Ge, ha definito l’accusa di bigamia “assurda”. Per la moglie, Lu Qing, si tratta solo di tentativi per infangare la reputazione di suo marito. “Se hanno tutte queste prove, perché non lo rilasciano?”, ha dichiarato al Telegraph (14 aprile).
Comunque sia, Ai Weiwei sapeva benissimo di essere finito nella mira del Partito Comunista. L’artista, noto soprattutto come ideatore dello Stadio Olimpico di Pechino – ribattezzato il “Nido d’uccello” per la sua forma molto particolare -, si era velocemente distanziato dal modo in cui i Giochi del 2008 venivano organizzati dalle autorità cinesi. Ad inasprire le tensioni è stato il terremoto che il 12 maggio 2008 – tre mesi prima dell’inaugurazione delle Olimpiadi – devastò la provincia centromeridionale del Sichuan.
Il sisma provocò oltre 80.000 vittime, tra cui numerosi bambini e studenti delle scuole crollate come cartapesta. Secondo Ai, gli edifici scolastici erano stati costruiti con materiali di scarto (parlò di scuole fatte di “tofu”, cioè una sorta di ‘formaggio’ di soia), come conseguenza dell’onnipresente corruzione. A causa delle sue continue critiche, nell’agosto 2009 l’artista venne brutalmente colpito alla testa dalla polizia nella sua camera d’albergo nel capoluogo del Sichuan, Chengdu. Colpito da un’emorragia cerebrale, Ai subì un mese dopo l’aggressione un intervento d’emergenza a Monaco di Baviera (Germania), dove si trovava per una mostra.
Quando poi nel gennaio scorso il suo nuovo studio a Shanghai è stato raso al suolo su ordine delle autorità, Ai Weiwei ha capito che la rete si stava chiudendo attorno a lui e che forse era giunta l’ora di trasferirsi all’estero, anche se l’idea non gli piaceva. Come figlio di Ai Qing – un famoso poeta e pittore esiliato sotto Mao Zedong, prima nella Manciuria e poi nello Xinjiang -, Ai Weiwei sa cosa significa suscitare l’ira di Pechino. Secondo la Berliner Zeitung (29 marzo), l’artista aveva intrapreso i primi passi per aprire uno studio a Oberschöneweide, un quartiere di Berlino, ma sembra poco probabile che possa inaugurarlo in un futuro prossimo.
Dietro il pugno di ferro, che è coinciso con la stagione dei grandi congressi politici – a marzo si è svolta a Pechino l’Assemblea Nazionale del Popolo -, si celano i timori che il “virus nordafricano” della “Rivoluzione del gelsomino” si diffonda anche in Cina. La paranoia della sicurezza e della stabilità interna ha fatto sì che ad esempio parole come “gelsomino”, “oggi” e “domani” non possano più essere usate su Internet in Cina. La censura ha bloccato persino un video della tradizionale canzone cinese “Ma che bel fiore di gelsomino” intonata dal presidente Hu Jintao durante una visita in Kenya nel 2006.
La repressione risparmia neppure chi critica la famigerata legge del “figlio unico”, come dimostra l’accanimento nei confronti dell’attivista Mao Hengfeng, impegnata dal 1988 nella lotta contro la politica di pianificazione familiare in atto in questo Paese (ZENIT, 3 marzo). Anche la fede fa innervosire Pechino. Come riferito dall’agenzia AFP, la polizia ha arrestato domenica 17 aprile decine di fedeli di una delle più grandi chiese domestiche o “clandestine” della Cina – la Shouwang Protestant Church di Pechino -, perché volevano celebrare la liturgia all’aperto. Questo sabato era stato fermato anche il pastore, Jin Tianming, poi rilasciato domenica. A causa delle continue ingerenze delle autorità, la comunità di Shouwang non riesce a trovare un luogo di culto stabile. Secondo AsiaNews (1 aprile), le cose non vanno meglio a Guangzhou (o Canton, il capoluogo della provincia del Guangdong), dove la chiesa di Tianyun dovrà interrompere l’attività e anche la chiesa Rongguili, che conta circa 4.000 fedeli, rischia la chiusura.
L’ossessione di Pechino di voler controllare tutto provoca anche frizioni con la Santa Sede, la quale ha reagito alle ultime pesanti intromissioni delle autorità cinesi nella vita interna della Chiesa cattolica con il “Messaggio ai cattolici cinesi” diffuso questo giovedì dalla Commissione vaticana per la Chiesa in Cina. La Santa Sede ha mostrato forte preoccupazione per l’ordinazione illecita (cioè senza approvazione pontificia) il 20 novembre 2010 del nuovo vescovo della diocesi di Chengde (provincia di Hebei), monsignor Giuseppe Guo Jincai, alla quale hanno partecipato otto vescovi in comunione con Roma, e per l’ottava Assemblea dei rappresentanti cattolici svoltasi in assoluta segretezza nel dicembre scorso a Pechino. L’evento si era concluso con l’elezione di monsignor Giuseppe Ma Yinglin, vescovo illecito della diocesi di Kunming (Yunnan), come presidente del Consiglio dei vescovi cinesi, e di monsignor Johan Fang Xinyao, vescovo di Linyi (Shandong), a capo dell’Associazione Patriottica, cioè la sola Chiesa cattolica riconosciuta da Pechino.
Come ha osservato AsiaNews il 6 di
cembre scorso, il “modus operandi” delle autorità cinesi in occasione dei due eventi ricorda i tempi della famigerata “Rivoluzione culturale”. Decine di vescovi sono stati costretti a partecipare all’Assemblea e anche per l’ordinazione di monsignor Guo Jincai sono stati utilizzati metodi forti per “convincere” gli otto vescovi in comunione con il Papa ad assistere alla cerimonia. Questa “situazione di crisi” – espressione usata questo venerdì dal portavoce vaticano, padre Federico Lombardi – pone il Vaticano davanti ad un dilemma: cercare il compromesso con Pechino ed essere clemente verso i vescovi in linea con le autorità, seguendo dunque le orme della “Ostpolitik” del cardinale Agostino Casaroli (1914-1998), come ha proposto padre Jeroom Heyndrickx nel numero di marzo della Fondazione Ferdinand Verbiest (UCA News, 1 aprile), o scegliere la linea della fermezza e della fedeltà al Pontefice, come sostenuto dal cardinale Joseph Zen Ze-kiun, vescovo emerito di Hong Kong?