Quarta predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa

“Un amore fattivo. La Rilevanza sociale del Vangelo”

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ROMA, venerdì, 15 aprile 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della quarta e ultima predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia, pronunciata questo venerdì mattina nella Cappella “Redemptoris Mater” alla presenza di Papa Benedetto XVI.

Il tema delle meditazioni quaresimali è stato “Al di sopra di tutto vi sia la carità” (Colossesi 3, 14).

La prediche precedenti sono state tenute il 25 marzo, il e l’8 aprile.

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1. L’esercizio della carità

Nell’ultima meditazione abbiamo imparato da Paolo che l’amore cristiano deve essere sincero; in quest’ultima meditazione impariamo da Giovanni che esso deve essere anche fattivo: “ Ma se qualcuno possiede dei beni di questo mondo e vede suo fratello nel bisogno e non ha pietà di lui, come potrebbe l’amore di Dio essere in lui? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e in verità” ( 1Gv 3, 16-18). Ritroviamo lo stesso insegnamento, in forma più colorita, nella Lettera di Giacomo: “ Se un fratello o una sorella non hanno vestiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: ‘Andate in pace, scaldatevi e saziatevi’, ma non date loro le cose necessarie al corpo, a che cosa serve?” (Gc 2, 16).

Nella comunità primitiva di Gerusalemme questa esigenza si traduce in condivisione. Dei primi cristiani si dice che “vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Atti 2,45), ma a spingerli a ciò non era un ideale di povertà, ma di carità; lo scopo non era di essere tutti poveri, ma che non ci fosse tra loro “alcun bisognoso” (Atti 4, 34). La necessità di tradurre l’amore in gesti concreti di carità non è estranea neppure all’apostolo Paolo che, abbiamo visto, insiste tanto sull’amore del cuore. Lo dimostra l’importanza che da alle collette a favore dei poveri, a cui dedica due interi capitoli della sua Seconda Lettera ai Corinzi (cf. 2 Cor 8-9).

La Chiesa apostolica non fa, su ciò, che raccogliere l’insegnamento e l’esempio del Maestro la cui compassione per i poveri, i malati e gli affamati non restava mai un vuoto sentimento ma si traduceva sempre in aiuto concreto e che fatto di questi gesti concreti di carità la materia del giudizio finale (cf. Mt 25).

Gli storici della Chiesa vedono in questo spirito di solidarietà fraterna uno dei fattori principali della “Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli”[1]. Esso si tradusse in iniziative – e più tardi in istituzioni – apposite per la cura degli infermi, sostegno alle vedove e agli orfani, aiuto ai carcerati, mense per i poveri, assistenza ai forestieri…Di questo aspetto della carità cristiana, nella storia e nell’oggi, si occupa la seconda parte dell’enciclica di papa Benedetto XVI “Deus caritas est” e, in maniera permanente, il Pontificio Consiglio “Cor Unum”.

2. L’emergenza del problema sociale

L’epoca moderna, soprattutto l’Ottocento, ha segnato su ciò una svolta, portando alla ribalta il problema sociale. Non basta provvedere caso per caso al bisogno dei poveri e degli oppressi, occorre agire sulle strutture che creano i poveri e gli oppressi. Che si tratti di un terreno nuovo, almeno nella sua tematizzazione, lo si deduce dal titolo stesso e dalle prime parole dell’enciclica di Leone XIII “Rerum novarum” del 15 maggio 1891, con la quale la Chiesa entra da protagonista nel dibattito. Vale la pena rileggere questo avvio dell’enciclica:

“L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto”.

In questo ordine di problemi si colloca la seconda enciclica del Santo Padre Benedetto XVI sulla carità: “Caritas in veritate”. Io non ho alcuna competenza in questa materia e perciò mi astengo doverosamente dall’entrare nel merito dei contenuti di questa come delle altre encicliche sociali. Quello che vorrei fare è di illustrare il retroterra storico e teologico, il cosiddetto “Sitz im Leben”, di questa nuova forma del magistero ecclesiastico: cioè come e perché si è cominciato a scrivere encicliche sociali e se ne scrivono periodicamente delle nuove. Questo infatti ci può aiutare a scoprire qualcosa di nuovo intorno al vangelo e all’amore cristiano. San Gregorio Magno dice che “la Scrittura cresce con coloro che la leggono” (cum legentibus crescit)[2], cioè mostra sempre nuovi significati a seconda delle domande che le vengono poste, e questo si rivela particolarmente vero nel presente ambito.

La mia sarà una ricostruzione, come si dice, “a volo di uccello”, per sommi capi, come si può fare in pochi minuti, ma le sintesi e i riassunti hanno anch’essi la loro utilità, specie quando, per diversità di compiti, non si ha la possibilità di approfondire di persona un certo problema.

Al momento in cui Leone XIII scrive la sua enciclica sociale, tre erano gli orientamenti dominanti sul significato sociale del vangelo. Vi era anzitutto l’interpretazione socialista e marxista. Marx non si era occupato del cristianesimo da questo punto di vista, ma alcuni suoi immediati seguaci (Engels da un punto di vista ancora ideologico e Karl Kautsky da un punto di vista storico) trattarono il problema, nell’ambito della ricerca sui “precursori del socialismo moderno”.

Le conclusioni a cui giunsero sono le seguenti. Il vangelo fu principalmente un grande annuncio sociale rivolto ai poveri; tutto il resto, il suo rivestimento religioso, è secondario, una “sovrastruttura”. Gesù fu un grande riformatore sociale, che volle redimere le classi inferiori dalla miseria. Il suo programma prevede l’uguaglianza di tutti gli uomini, l’affrancamento dal bisogno economico. Quello della primitiva comunità cristiana fu un comunismo ante litteram, di carattere ancora ingenuo non scientifico: un comunismo nel consumo, più che nella produzione dei beni.

In seguito la storiografia sovietica di regime rigetterà questa interpretazione che, secondo loro, concedeva troppo al cristianesimo. Negli anni 60’ del secolo trascorso l’interpretazione rivoluzionaria ricomparve, questa volta in chiave politica, con la tesi di Gesù capo di un movimento “zelota” di liberazione, ma ebbe vita breve ed esula in questo momento dal nostro campo. (Il Santo Padre ricorda questa interpretazione nel suo ultimo libro su Gesù, parlando della purificazione del tempio).

A una conclusione analoga a quella marxista, ma con tutt’altro intento, era giunto Nietzsche. Anche per lui il cristianesimo è nato come un movimento di riscossa delle classi inferiori, ma il giudizio da dare su ciò è del tutto negativo. Il vangelo incarna il “risentimento” dei deboli contro le nature vigorose; è l”’inversione di tutti i valori”, un tarpare le ali allo slancio umano verso la grandezza. Tutto quello che Gesù si prefiggeva era diffondere nel mondo, in opposizione alla miseria terrena, un “regno dei cieli”.

A queste due scuole – concordi nel modo di vedere, ma opposte nel giudizio da dare -, se ne affianca una terza che possiamo chiamare conservatrice. Secondo essa, Gesù non si è interessato affatto ai problemi sociali ed economici; attribuirgli
questi interessi sarebbe diminuirlo, mondanizzarlo. Egli prende immagini dal mondo del lavoro e ha preso a cuore i miseri e i poveri, ma mai ha avuto di mira il miglioramento della condizione di vita della gente nella vita terrena.

3. La riflessione teologica: teologia liberale e dialettica

Queste sono le idee dominanti nella cultura del tempo, quando inizia sul problema una riflessione anche teologica da parte delle Chiese cristiane. Anch’essa si svolge in tre fasi e presenta tre orientamenti: quello della teologia liberale, quello della teologia dialettica e quello del magistero cattolico.

La prima risposta è quella della teologia liberale della fine del XIX e l’inizio del XX secolo, rappresentata in questo campo soprattutto da Ernst Troeltsch e Adolph von Harnack. Vale la pena soffermarsi un po’ sulle idee di questa scuola perché molte conclusioni da essa raggiunte, almeno in questo campo specifico, sono quelle alle quali, per altro verso, giunge anche il magistero sociale della Chiesa e sono tuttora attuali e condivisibili.

Troeltsch contesta il punto di partenza della interpretazione marxista, secondo cui il fattore religioso è sempre secondario rispetto a quello economico, una semplice sovrastruttura. Studiando l’etica protestante e l’inizio del capitalismo, egli dimostra che, se il fattore economico influisce su quello religioso, è vero anche che quello religioso influisce su quello economico. Si tratta di due ambiti distinti, non subordinati l’uno all’altro.

Harnack, dal canto suo, prende atto che il vangelo non ci fornisce un programma sociale diretto a combattere ed abolire il bisogno e la povertà, non esprime giudizi sulla organizzazione del lavoro, e altri aspetti della vita per noi oggi importanti, come l’arte e la scienza. Ma per fortuna, aggiunge, che è così! Guai se avesse fatto altrimenti e avesse cercato di dare regole sui rapporti tra le classi, le condizioni del lavoro, e via dicendo. Per essere concrete, le sue regole sarebbero state fatalmente legate alle condizioni del mondo di allora (come lo sono molte istituzioni e precetti sociali dell’Antico Testamento), quindi anacronistiche in seguito e anzi un “inutile ingombro” per il vangelo. La storia, anche quella del cristianesimo, dimostra quanto sia pericoloso legarsi ad assetti sociali e istituzioni politiche di una certa epoca e quanto sia difficile poi liberarsene.

“Eppure, prosegue lo Harnack, non c’è altro esempio di una religione che sia sorta con un verbo sociale così poderoso come la religione del vangelo. E ciò perché? Perché le parole “ama il prossimo tuo come te stesso” qui sono veramente prese sul serio, perché con queste parole Gesù illuminò tutta la realtà della vita, tutto il mondo della fame e della miseria…Al socialismo fondato su interessi antagonistici, esso vuole sostituire un socialismo che si fonda sulla coscienza di una unità spirituale…La massima speciosa del ‘libero gioco delle forze’, del ‘vivere e lasciar vivere’ –meglio sarebbe dire: vivere e lascia morire – è in aperta opposizione con il vangelo”[3].

La posizione del messaggio evangelico si oppone, come si vede, sia alla riduzione del vangelo a proclama sociale e a lotta di classe, sia alla posizione del liberalismo economico del libero gioco delle forze. Il teologo evangelico si lascia andare a tratti a un certo entusiasmo: “Uno spettacolo nuovo – scrive – si presentava al mondo; fino allora la religione o se n’era stata alle cose del mondo, adattandosi facilmente allo statu quo, oppure si era accampata nelle nubi, mettendosi in diretta opposizione con tutto. Ora invece le si presentava un nuovo dovere da compiere, tenere a vile il bisogno e la miseria di questa terra, e similmente la terrena prosperità, pur sollevando miserie e bisogni di ogni genere; levare la fronte al cielo nel coraggio che viene dalla fede, e lavorare con cuore, con la mano e con la voce per i fratelli di questa terra”[4].

Che cos’è che la teologia dialettica, succeduta a quella liberale dopo la prima guerra mondiale, ha da rimproverare a questa visione liberale? Soprattutto il suo punto di partenza, la sua idea del regno dei cieli. Per i liberali esso è di natura essenzialmente etica; è un sublime ideale morale, che ha come fondamenti la paternità di Dio e il valore infinito di ogni anima; per i teologi dialettici (K. Barth, R. Bultmann, M. Dibelius), esso è di natura escatologica; è un intervento sovrano e gratuito di Dio, che non si propone di cambiare il mondo, quanto di denunciare il suo assetto attuale (“critica radicale”), annunciarne la fine imminente (“escatologia conseguente”), lanciando l’appello alla conversione (“imperativo radicale”).

Il carattere di attualità del vangelo consiste nel fatto che “tutto ciò che viene richiesto non viene richiesto in generale, da tutti e per tutti i tempi, ma da quest’uomo e forse da lui solo, in questo momento e forse solo in questo momento; e viene richiesto non sulla base di un principio etico, ma a causa della situazione di decisione in cui Dio ha posto lui e forse lui soltanto ora e qui”[5]. L’influsso del vangelo nel sociale avviene attraverso il singolo, non attraverso la comunità o l’istituzione ecclesiale.

La situazione che interpella il credente in Cristo oggi è quella creata dalla rivoluzione industriale con le mutazioni che ha portato al ritmo della vita e del lavoro, con conseguente disprezzo della persona umana. Di fronte ad essa non si danno soluzioni “cristiane”, ogni credente è chiamato a rispondere ad essa sotto la propria responsabilità, nell’obbedienza all’appello che Dio gli fa giungere nella situazione concreta in cui vive, anche se trova un criterio di fondo nel precetto dell’amore del prossimo. Non deve rassegnarsi pessimisticamente davanti alle situazioni, ma neppure farsi illusione sul cambiamento del mondo.

Si può ancora parlare, in questa prospettiva, di una rilevanza sociale del vangelo? Si, ma solo di metodo, non di contenuto. Mi spiego. Questa visione riduce il significato sociale del vangelo a un significato “formale”, escludendo ogni significato “reale”, o di contenuto. In altre parole, il vangelo da il metodo, o l’impulso, per un retto atteggiamento e un retto agire cristiano nel sociale, non altro.

Qui è il punto debole di questa visione. Perché attribuire ai racconti e alle parabole evangeliche un significato solamente formale (“come accogliere l’appello alla decisione che viene a me, ora e qui”) e non anche un significato reale ed esemplare. È lecito, per esempio, a proposito della parabola del ricco epulone, ignorare le indicazioni concrete e chiare ivi contenute circa l’uso e l’abuso della ricchezza, il lusso, il disprezzo del povero, per attenersi solo a “l’imperativo dell’ora” che risuona attraverso la parabola? Non è per lo meno strano che Gesù intendesse dire semplicemente che lì, davanti a lui, occorreva decidersi per Dio e che, per dire questo, abbia messo in piedi un così complesso e dettagliato racconto che svierebbe, anziché concentrare, l’attenzione dal centro dell’interesse?

Una tale soluzione che scarnifica il messaggio di Cristo muove dal presupposto sbagliato che non vi siano delle esigenze comuni nella parola di Dio che si pongono al ricco di oggi, come si ponevano al ricco – e al povero – del tempo di Gesù. Quasi che la decisione chiesta da Dio fosse qualcosa di vuoto e di astratto – un puro decidersi – e non un decidersi su qualcosa. Tutte le parabole a sfondo sociale vengono definite “parabole del regno” e così il loro contenuto è appiattito su un unico significato, quello escatologico.

4. La dottrina sociale della Chiesa

La dottrina sociale della Chiesa cattolica, come sempre, cerca la sintesi più che la contrapposizione, il metodo dell’ et – et, anziché dell’aut – aut. Essa mantiene al vangelo la sua “doppia illuminazione”: quella escatologica e quella mor
ale. In altre parole: è d’accordo con la teologia dialettica sul fatto che il regno di Dio predicato da Cristo non è di natura essenzialmente etica, cioè un ideale che trae la sua forza dalla universale validità e perfezione dei suoi principi, ma è una iniziativa nuova e gratuita di Dio che, con Cristo, fa irruzione dall’alto.

Si distacca invece dalla visione dialettica nel modo di concepire il rapporto tra questo regno di Dio e il mondo. Tra i due non c’è solo opposizione e inconciliabilità, come non c’è opposizione tra l’opera della creazione e quella della redenzione e come – abbiamo visto nella prima meditazione – non c’è opposizione tra agape ed eros. Gesù ha paragonato il regno di Dio al lievito posto nella massa per farla fermentare, al seme gettato in terra, al sale che da sapore ai cibi; dice di non essere venuto a giudicare il mondo, ma a salvare il mondo. Questo consente di vedere l’influsso del vangelo nel sociale in una luce diversa e molto più positiva.

Ci sono, però, nonostante tutte le differenze di impostazione, alcune conclusioni comuni che emergono da tutta la riflessione teologica sul rapporto tra il vangelo e il sociale. Le possiamo riassumere così. Il vangelo non fornisce soluzioni dirette ai problemi sociali (guai, abbiamo visto, se avesse tentato di farlo!); contiene però dei principi che si prestano a elaborare risposte concrete alle diverse situazione storiche. Siccome le situazioni e i problemi sociali cambiano di epoca in epoca, il cristiano è chiamato a incarnare di volta in volta i principi del vangelo nella situazione del momento.

L’apporto delle encicliche sociali dei papi è precisamente questo. Perciò esse si susseguono, riprendendo ognuna il discorso dal punto in cui l’hanno lasciato le precedenti (nel caso dell’enciclica di Benedetto XVI, dalla “Populorum progressio” di Paolo VI) e lo aggiornano in base alle istanze nuove emerse in una società (in questo caso, il fenomeno della globalizzazione) e anche in base a una interrogazione sempre nuova della parola di Dio.

Il titolo dell’enciclica sociale di Benedetto XVI, “ Caritas in veritate”, indica quali sono, in questo caso, i fondamenti biblici su cui si intende fondare il discorso sul significato sociale del vangelo: la carità e la verità. “La verità – scrive – preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia[…]. Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale, e l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali”[6].

La diversità non sta solo nelle cose dette e nelle soluzioni proposte, ma anche nel genere adottato e nell’autorità della proposta. Consiste, in altre parole, nel passaggio dalla libera discussione teologica al magistero e da un intervento nel sociale di natura esclusivamente “individuale” (come quello proposto dalla teologia dialettica) a un intervento comunitario, come Chiesa e non solo come individui.

5. La nostra parte

Terminiamo con uno spunto pratico che interpella tutti, anche quelli tra noi che non sono chiamati a operare direttamente nel sociale. Abbiamo visto l’idea che aveva Nietzsche della rilevanza sociale del vangelo. Esso era, sì, per lui il frutto di una rivoluzione, ma una rivoluzione in negativo, una involuzione rispetto alla grecità; era la rivincita dei deboli contro i forti. Uno dei punti da lui più presi di mira era la preferenza data al servire sul dominare, al farsi piccoli sul volere emergere e aspirare a cose grandi.

Egli accusava il cristianesimo per uno dei doni più belli che aveva fatto al mondo. Uno dei principi con i quali il vangelo maggiormente e più beneficamente influisce sul sociale è infatti proprio quello del servizio. Non per nulla esso occupa un posto importante nella dottrina sociale della Chiesa. Gesù ha fatto del servizio uno dei cardini del suo insegnamento, (Lc 22,25); lui stesso dice di essere venuto per servire e non per essere servito (Mc 10,45).

Il servizio è un principio universale; si applica a ogni aspetto della vita: lo stato dovrebbe essere a servizio dei cittadini, il politico a servizio dello stato, il medico a servizio dei malati, l’insegnante a servizio degli alunni…Si applica però in maniera tutta speciale ai servitori della Chiesa. Il servizio non è, in sé stesso, una virtù (in nessun catalogo delle virtù, o dei frutti dello Spirito, si menziona nel Nuovo Testamento, la diakonia), ma scaturisce da diverse virtù, soprattutto dall’umiltà e dalla carità. E’ un modo di manifestarsi di quell’amore che “non cerca il proprio interesse, ma anche quello degli altri” (Fil 2,4), che dona senza cercare il contraccambio.

Il servizio evangelico, all’opposto di quello del mondo, non è proprio dell’inferiore, del bisognoso, ma piuttosto del superiore, di chi è posto in alto. Gesù dice che, nella sua Chiesa, è soprattutto “chi governa” che deve essere “come colui che serve” (Lc 22, 26), il primo deve essere ”il servo di tutti” (Mc 10,44). Ci stiamo preparando alla beatificazione di Giovanni Paolo II. Nel suo libro Dono e mistero, egli esprime con un’immagine forte questo significato dell’autorità nella Chiesa. Si tratta di alcuni versi da lui composti a Roma al tempo del concilio:

“Sei tu, Pietro. Vuoi essere qui il Pavimento

su cui camminano gli altri… per giungere là

dove guidi i loro passi

– come la roccia sostiene lo zoccolare di un gregge”.

Terminiamo ascoltando come rivolte a noi ora e qui le parole che Gesù disse ai suoi discepoli subito dopo aver loro lavato i piedi: “Capite quello che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io” (Gv 13 12-15).

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1) A. von Harnack, Mission und Ausbreitung des Christentums in den ersten drei Jahrhunderten, Lipsia 1902.

2) S. Gregorio Magno, Commento a Giobbe, XX,1 (CCL 143°,p.1003).

3) A. von Harnack, Das Wesen des Christentums, Lipsia 1900. Trad. ital. L’essenza del cristianesimo, Brescia, Queriniana 1980.

4) A. von Harnack, Il cristianesimo e la società, Mendrisio 1911, pp. 12-15.

5) M. Dibelius, Das soziale Motiv im Neuen Testament, in Botschaft und Geschichte, Tubinga 1953, pp. 178-203.

6) Benedetto XVI, “Caritas in veritate”, n. 5.

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ZENIT Staff

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