di padre Angelo del Favero*
ROMA, venerdì, 15 aprile 2011 (ZENIT.org).- Il Signore mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato,..sapendo di non restare confuso (Is 50,4-7).
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al disopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sottoterra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è il Signore!”, a gloria di Dio Padre (Fil 2,5-11).
Nella Domenica della Passione del Signore, è Gesù in persona a prendere la parola per bocca di Isaia: “Il Signore mi ha dato una lingua da discepolo…Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,..non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi” (Is 50,6). Gesù riconosce le proprie sembianze in questa figura sofferente del “Servo”, quasi a dirci: “ho imparato ad obbedire come un discepolo alla scuola della sofferenza, ma non sono stato costretto a subire l’accanimento della violenza sul mio corpo e del disprezzo sul mio volto, anzi: ho desiderato ardentemente i colpi dei miei torturatori, sapendo così di camminare verso la completa vittoria sul male e sulla morte, interamente abbandonato alla volontà del Padre”.
Ma oggi è anche per bocca di Paolo che Gesù ci parla. L’inno di Fil 2,6-11, infatti, è una sintesi perfetta del Mistero Pasquale di Cristo: dall’umiliazione dell’obbedienza “fino alla morte di croce” (2,8), all’esaltazione della vittoria totale e definitiva sulla morte. E’ in questo testo mirabile che vogliamo contemplare oggi la Passione del Signore. L’inno non è solamente una “perla teologica”, ma anche una mini enciclica di carattere pastorale. Lo comprendiamo dal contesto concreto della comunità cui Paolo si rivolge. Esso, infatti, è preceduto da una accorata esortazione all’unità tra i credenti: “Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù…” (Fil 2,1-5).
Paolo ha chiamato la comunità di Filippi “mia gioia e mia corona” (4,1), ma essa non è una comunità perfetta, ideale. L’armonia della fede è turbata dagli atteggiamenti di alcuni che fanno mostra di superiorità nei confronti di altri, rivelando così la presenza di uno spirito di parte e vanagloria. Paolo freme, ma non si rassegna, sforzandosi di rincuorare, confortare ed esortare tutti; quasi in ginocchio scongiura i fedeli di non litigare, di non mordersi, di non dividersi. Avendo in mente questo intento, per realizzarlo l’apostolo parte dalla storia di Gesù, nel quale tutti i credenti sono innestati, sin dal Battesimo, per quel dono dello Spirito che li fa essere membra solidali di un solo Corpo: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Tale unità profonda è manifestata concretamente dalla comunione operativa, segno di conformità alla stessa coscienza di Cristo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù..” (Fil 2,5).
Per giungere a questa altissima meta, afferma Paolo, è imprescindibile camminare nell’umiltà, imitando l’esempio sublime del Signore (cfr anche 1Pt 2,21-25).
Per comprendere, allora, la profonda umiltà di Gesù, occorre partire dalle prime parole dell’inno. Osserva un esperto: “L’inno inizia con un participio che descrive il modo di essere di Gesù Cristo prima della sua nascita: ‘Il quale, essendo nella condizione di Dio’. La parola ‘pur’ in greco manca, c’è un semplice ‘de’, che può venir tradotto all’opposto di ‘pur’, cioè con ‘proprio’; quindi non ‘pur essendo nella condizione di Dio’, ma ‘proprio essendo nella condizione di Dio’”. Il termine ‘condizione’, ‘modo di essere’ (morphe), è la realtà profonda di una persona che poi si manifesta concretamente all’esterno, è l’apparire esterno che però corrisponde all’essere, che manifesta al di fuori la natura intima di una realtà” (don Lorenzo Zani).
Che il Figlio di Dio si sia fatto servo, incarcerandosi nei limiti peccaminosi della condizione umana fino a subire l’ignominia della croce, è un comportamento di un’umiltà sconcertante, che tuttavia non deve stupire perché è del tutto conforme alla natura di Dio. Infatti “Dio è amore” (1Gv 4,8), e l’umiltà è il volto più vero, amabile e radicale dell’amore.
L’umile non è geloso e non suscita gelosia: per questo “Cristo Gesù…non ritenne un privilegio l’essere come Dio” (Fil 2,6). Gesù non ha voluto preservare gelosamente il suo rango divino, ma si è comportato come un re pronto a far sedere sul suo trono un mendicante, scambiando volentieri la propria regalità con la povertà di quello. Il Re divino ha fatto questo per ognuno di noi. Tale è stata la sua compassione per noi, da essere angosciato finché non ha sofferto la Passione di sangue che ci ha redenti. Ha così mostrato che l’umile non desidera trattenere nulla, nemmeno la propria vita, poiché è libero dal proprio io e dal possesso delle creature. Il dono sincero di sé e la compassione per la sofferenza altrui sono il suo modo di sentire, di pensare e di esistere.
Paolo ci dice oggi che questa meravigliosa umiltà è divina. Infatti, proprio essendo di natura divina Gesù ha scelto di nascere e vivere nel nascondimento, di non agire con spettacolarità, di donarsi agli uomini nel segreto fino a morire per loro sulla croce, solo e ignorato da tutti. Per questo già all’inizio della sua vita pubblica, Gesù ha ritenuto tentazione satanica la prospettiva di avvalersi dei suoi poteri e della sua uguaglianza con Dio (Mt 4,1-11), preferendo sempre la sottomissione al Padre e rifuggendo da ogni esibizione di sé. Evidentemente, però, l’incarnazione del Figlio di Dio non ha comportato la rinuncia alla divinità, ma ha nascosto il suo modo divino di essere, come l’obbedienza ad un altro fa nascondere la propria volontà.
Così Gesù “dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,7b-8). Che Gesù si sia voluto umiliare fino all’obbrobrio della croce non dice meschinità, servilismo, disonore della dignità personale, ma solo l’abisso inconcepibile della sua umiltà, che noi possiamo contemplare ed imparare in due direzioni.
Nei confronti di Dio, l’umiltà è la totale sottomissione della nostra alla sua volontà, attiva e pronta obbedienza accompagnata da fiducia to
tale, come Maria: “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38). Nei confronti degli uomini, l’umiltà è la volontà che si fa bambina, che si abbassa al livello dei poveri in statura morale e sociale, i “piccoli”, per condividerne la sorte e dar loro sollievo nella sofferenza. Così intesa, l’umiltà non è tanto una condizione sociale, o un’apparenza, o un comportamento (anche se la Bibbia non manca di alludere all’uomo povero, senza peso nella società), ma è un modo di essere e di esistere, uno stile di vita che procede dal cuore dell’uomo, dalla sua coscienza, e che mette spontaneamente in moto la volontà di servire e beneficare tutti. Una simile umiltà è sempre obbediente e riconoscente, direi “eucaristica”. Gesù è umile perché è mite, obbediente; Gesù è Eucaristia.
Egli è stato obbediente al Padre dal concepimento “fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,8). L’obbedienza di Gesù non si è fermata nemmeno di fronte all’esperienza umana più dolorosa, più ignominiosa. E morire, per Gesù, è stato infinitamente più tremendo che per ogni altra persona, in quanto egli è il Signore della vita.
L’umiltà del Figlio di Dio, iniziata con la decisione di non conservare gelosamente le proprie prerogative divine, trova sulla croce il suo culmine e la sua massima rivelazione: qui Gesù ha condiviso la sorte di ogni ultimo fra gli ultimi degli uomini, ma proprio per questo“Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2,9). L’esaltazione del Crocifisso ha questo scopo: che “ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!” (Fil 2,11).
E’ il grido riconoscente della vita, grido di gioia che scaturisce dalla fede nella Risurrezione; fede che vince continuamente le forze della morte perché ci fa partecipi della vittoria di Cristo, diventata nostra. Tutto ciò è vero anzitutto per la nostra morte (ecco le vere “direttive” che riguardano la fine e il fine della nostra vita, anticipate dalla risurrezione di Gesù!), ma è vero anche per ogni giorno della nostra vita, in cui possiamo essere vincitori sulle forze della morte, vale a dire su tutto ciò che ci porta alla tristezza, allo scoraggiamento, all’angoscia di continuare a vivere senza che apparentemente “ne valga la pena”.
E’ una “pena” che vale infinitamente, poiché la fede ci rende partecipi delle sofferenze di Cristo, e per ciò stesso anche della gloria della sua Risurrezione.
———
* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.