“Di generazione in generazione”: un filo interrotto?

Salvatore Natoli alla presentazione del Festival Biblico di Vicenza

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ROMA, venerdì, 15 aprile 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lectio magistralis tenuta il 22 marzo scorso nella Chiesa di Santa Maria in Araceli (Vicenza) dal prof. Salvatore Natoli – docente di Filosofa Teoretica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli studi di Milano – in occasione della presentazione della VII edizione del Festival Biblico che si terrà proprio a Vicenza dal 20 al 29 maggio prossimi sul tema «Di generazione in generazione» (Gl 1,3).

 

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«Di generazione in generazione» è un tema certamente centrale nella Bibbia, ma fondamentale per l’intera vita della società e degli individui. Non è un caso che la Bibbia sia stata definita un «grande codice»: prima eravamo in pochi a dirlo e molti di meno quelli che se ne rendevano conto.

Oggi – e il successo del Festival Biblico ne è una conferma – sta cominciando a diventare senso comune. È un «grande codice» perché appartiene alle grandi forme di codificazione della vita collettiva e dell’evoluzione storica, proprio come i grandi classici della antichità latino-romana hanno caratterizzato fino a non poco tempo fa la formazione e la struttura della didattica nelle nostre scuole. «Grande codice» perché repertorio delle condotte umane, documento dei sistemi di credenza e degli incroci tra civiltà, che sono frutto di costanti contaminazioni. Essa è pure un racconto del formarsi e trasformarsi delle istituzioni sociali e degli assetti politici. Basta aprire la Bibbia e ci si rende immediatamente conto che essa è tutte queste cose insieme e qualsiasi persona voglia rendersi conto della civiltà nella quale vive e della sua storia, vale a dire la tessitura della nostra stessa umanità, si rende conto di quanto essa sia importante anche a prescindere dal fattore fede.

Ed è ancora più importante per noi civiltà europea del Mediterraneo e civiltà vicina ad un Oriente che torna a farsi sentire. La grande area mediterranea è stata punto di osmosi e di incontro, che non si può ignorare nella costruzione di quello che possiamo chiamare «emisfero occidentale».

Memoria individuale, memoria collettiva

Nella Bibbia appare un popolo migrante nel deserto che, per definire se stesso, è invitato a ricordare nel giorno del ringraziamento: «Mio padre era un Arameo errante» (Dt 26,5). Ecco che siamo già entrati nel tema «di generazione in generazione»: quest’espressione costituisce la memoria culturale dell’umanità intera o anche, a seconda delle tradizioni e dei ceppi, di parti dell’umanità. La caratteristica delle memorie culturali è quella di non essere generiche, ma contestuali a grandi gruppi umani. Lo vediamo anche nella Bibbia: dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre inizia il libro delle generazioni: «Questo è il libro delle generazioni di Adamo» (Gn 5,1). Dalla grande scena cosmologica che apre la Bibbia – la creazione – si passa ad una scena antropologica: la genealogia dei popoli. La memoria pertanto è memoria culturale e l’inculturazione – con i suoi processi evolutivi – appartiene a gruppi umani distribuiti sul pianeta. La memoria culturale è ciò che dà identità e durata ai gruppi umani, costituendo quello che potremmo chiamare – secondo un’espressione hegeliana – lo «spirito di un popolo».

Ora, ci sono modalità diverse di ricordare e anche la cultura del ricordo è composta di più livelli. C’è una memoria individuale che costituisce gli enti singolari. Proust ce lo ha raccontato nella sua Recherche, così come Freud parlando della dimensione anamnestica: noi siamo la nostra memoria. Memoria di cosa? Di storie, di relazioni. Il contenuto della nostra memoria è esperienza di racconti e relazioni, da quelle inconsce – come la prima relazione con il seno materno – a tutta la catena di relazioni con l’esterno e con gli altri. La nostra identità personale è già frutto di una realtà relazionale. Noi siamo un nodo di fili diversi. A questo proposito è paradigmatico il nostro stesso parlare: noi non pronunciamo una lingua, ma entriamo in discorso. Entriamo cioè in qualcosa che è già in corso. Pertanto la memoria personale è una trama dove i fili non sono dispersi, ma ordinati e intrecciati, costruendo quell’arazzo che è il racconto della nostra vita.

A fronte di essa v’è la memoria collettiva. Indirettamente l’ho già evocata: noi come individui singolari non esisteremmo senza la trama sociale entro cui siamo venuti all’essere. Dunque la nostra vita in che senso è davvero nostra? Non ce la siamo data e ci è tolta indipendentemente dalla nostra volontà. Allora cos’è la vita? È la capacità che noi abbiamo di costruire relazioni, cioè di diventare soggetti attivi dentro un processo che ci precede, impossessandocene in modo originale.

Ecco allora che la stessa frase grammaticale pronunziata da me non è uguale a quella pronunziata da un altro, perché c’è un’impronta singolare. Memoria individuale e memoria collettiva s’intrecciano, ma nello stesso tempo si differenziano. La generazione precede l’individuo, ma l’individuo si costituisce come innovativo rispetto alla tradizione perché, attraverso questo impossessarsene e diventarne protagonista, il singolo dà a quella stessa tradizione una originalità e un timbro che non poteva avere prima che io apparissi nel mondo. E tuttavia, per quanto io innovi, il linguaggio l’ho ricevuto da quella stessa tradizione che aggiorno, altrimenti sarei muto, senza parole e senza espressione. Ecco allora che «di generazione in generazione» significa una tensione tra continuità e differenziazione.

Memoria comunicativa, memoria culturale

Se facciamo una riflessione pratica, ci rendiamo conto come una stessa vicenda personale viene raccontata in modo diverso e assume un diverso significato se raccontata a un amico, a un figlio o se la si scrive per il gusto di raccontarla. La storia muta non solo in ragione dell’uditorio, ma perché nel tempo cambia anche il narratore: ricordiamo il passato perché lo ricordiamo alla luce delle nuove esperienze che andiamo vivendo e, rammemorandolo, lo ridefiniamo. Ecco perché le origini, le vere origini identitarie, non sono storiche, ma mitiche. All’origine non sta la cosa, ma il racconto.

Cos’è allora la memoria culturale? Molti studiosi, antropologi, sociologi, teorici dell’evoluzione, distinguono tra quella che possiamo chiamare memoria comunicativa e ciò che intendiamo per memoria culturale. La memoria comunicativa si ha quando il narratore coincide con il testimone oculare: avviene nell’arco di una generazione e racconta esperienze vissute. Questa non è una memoria culturale, ma la sua pre-condizione. La memoria culturale, invece, è fatta di atti, gesti, miti. È sostanzialmente qualcosa fatto per durare oltre la continuità della trasmissione diretta e che ha quindi bisogno di una simbolica culturale. Venuta a mancare la voce narrante dei protagonisti, la memoria si conserva attraverso istituzioni e si ritualizza. Diventa scrittura e simbolo. La continuità diventa continuità canonica e noi possiamo conservare la nostra identità soltanto attraverso la riattivazione del rito che riaccende il racconto dell’esperienza vissuta.

«Di generazione in generazione» significa la trasmissione del passato attraverso una ritualizzazione delle condotte. Questo appare molto chiaro nella Bibbia. Che cosa entra del Sinai nella Terra Promessa? Non la generazione del deserto punita per il vitello d’oro, come si legge nel Libro dei Numeri, ma la legislazione che essa ha ricevuto. La memoria culturale stabilizza un canone: la Torah – con tutti i suoi precetti, strutture legali, feste e usi – diventa criterio d’orientamento che uniforma le condotte. Leggendo la Bibbia a questo livello aggiriamo la differenza tra credenti e non credenti, perché attiviamo un tipo di produzione del senso che appartiene anche ad altre cultu
re.

Stabiliti questi criteri per identificare cos’è una memoria culturale e quindi cosa vuol dire passare di generazione in generazione, possiamo enucleare almeno due punti: in primo luogo, i singoli prendono significato dentro le generazioni; e in secondo luogo, sia i singoli che le generazioni possono sussistere e durare soltanto in quanto ereditano una identità e la trasformano. Se questo non accade, i gruppi umani deperiscono.

Una promessa che dura per sempre

Qual è il tipo di memoria, e quindi di apparato simbolico, che costituisce la storia biblica? In altri termini qual è l’identità culturale della Bibbia e di conseguenza, in larga parte, dell’Occidente? L’identità culturale della Bibbia è centrata sulla generazione. In ebraico «generazione» si dice dor che significa «cerchio», «riunirsi attorno», «assemblea». La generazione, in quest’accezione, è la comunità che si raggruppa. Ma il senso prevalente non è questo, ovvero quello dei contemporanei che stanno insieme e coesistono. La dimensione principale è il passaggio, cioè come dalla generazione presente procede una generazione futura che riprende le memorie della prima. Così che nell’uso ebraico il termine dor non assume tanto il significato di gruppo, quanto prevalentemente di durata. Ecco che nell’espressione «di generazione in generazione» più importante del termine generazione lo sono le preposizioni «di» «in», che indicano lo stabilizzarsi della durata. Nella Bibbia «di generazione in generazione» finisce per diventare un sinonimo della parola ’olam, cioè «sempre», «eternità». È l’infinità del tempo di cui non si vede l’origine e non si vede la fine, ma si percepisce soltanto lo scopo in Dio che li tiene uniti, come direbbe Qohelet.

Questo plesso temporale è attribuito fondamentalmente a Dio. Cosa dura? Dura la fedeltà di Dio alla sua promessa. Quindi nell’economia biblica la locuzione «di generazione in generazione» indica la fedeltà eterna di Dio alla sua promessa.

Dio rimane fedele alla sua promessa, ma il senso di questa promessa sarà riformulato. Tutta la storia biblica è sostanzialmente una reinterpretazione della prima promessa, allorché Dio dice ad Abramo: «padre di una moltitudine di popoli ti renderò. […] Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione» (Gn 17,5-7). È qui che, per la prima volta, nella Bibbia appare l’espressione «di generazione in generazione».

Prima c’erano state le generazioni di Adamo, ora appare proprio la promessa di una stirpe «di generazione in generazione», cioè senza fine. E si riferisce non a un popolo privilegiato, ma a un popolo che deve significare in modo visibile a tutti i popoli la fecondità, se si è amici di Dio. Infatti la promessa si riferisce in parte a Israele e in parte all’umanità, perché il racconto di Abramo fa da cerniera tra le generazioni dei popoli e l’emersione di Israele.

Dio è immutabile perché è fedele alla sua promessa. E quando questa promessa non si adempie? Già con Abramo, ecco un primo episodio critico: la richiesta del sacrificio di Isacco. Si comincia a sperimentare la paradossalità di Dio che dà un appuntamento e poi non si fa trovare. Dunque o non c’è, o è da un’altra parte. Il Dio biblico costringe al cammino, fa avanzare sparendo. E questo movimento genera la storia: mentre gli altri popoli conoscevano il modello della ripetizione, questo Dio spiazzante che mette costantemente in crisi genera la storia.

Anche nel caso della promessa Dio le è fedele mettendola in crisi. La promessa rimanda ad altro. Questo appare chiaramente in Giobbe. Il Sinai promette ricchezza e fecondità a colui che adempie la legge, eppure il giusto Giobbe si trova nel dolore: Dio diventa misterioso. E la responsabilità – soprattutto con Ezechiele – da responsabilità delle generazioni incomincia a diventare responsabilità degli individui. E qui, con l’emergere del concetto di individualità dentro quello di generazione, le dinamiche di continuità e discontinuità diventano finissime. Il significato del peccato originale non è più tanto la trasmissione positiva di una colpa, quanto l’inevitabilità di una eredità: chi nasce, nasce carico del peso del proprio passato e non può usarlo come un alibi per compiere il male.

Al contrario, colui che nasce da una generazione empia non può omologarsi e ha l’obbligo di sacrificarsi per quella generazione. Appare una nuova figura della generazione, ma negativa, questa volta: esiste la possibilità che le generazioni si degradino. Il male le può corrompere. E allora bisogna riprendere in mano la promessa ancora una volta per rinnovarla contro la propria generazione. Non si capirebbe una parola dei profeti, se non si capisse questo: «Vi siete staccati da Dio… siete andati a tradirlo sulle montagne, adùlteri, con altri dèi!». Allora – io Amos, solo; io Geremia, solo – vi richiamo. Ecco che nel passaggio di generazione in generazione c’è il ritorno all’origine, la riproposizione dell’origine come principio di apertura al futuro.

Si apre non solo la possibilità dell’auto-sacrificio del giusto, ma pure quella di una generazione empia che lo sacrifica: il servo sofferente di Isaia rappresenta questo concetto. E nel Nuovo Testamento, se si eccettua il Magnificat, la generazione è sempre evocata come generazione empia che non riconosce Cristo.

Una fedeltà trasformante perché viva

E chi è Cristo? È colui che eredita la tradizione e tuttavia la reinventa. «Non uno iota bisogna togliere della legge», eppure bisogna viverla con un diverso significato. Troviamo nel Vangelo di Luca questa dimensione di auto-immedesimazione e di rottura: l’entrata nella vita pubblica di Gesù, nella sinagoga di Nazareth: secondo il costume dell’epoca, chiunque poteva entrare, prendere un rotolo della Bibbia, aprirlo, leggerlo (la tradizione omiletica) e commentarlo.

Gesù entra, prende il rotolo di Isaia, legge l’annuncio del Messia e commenta: «Oggi si stanno realizzando in me queste cose che leggete qui». È il passaggio fondamentale: trasformarsi in Torah vivente. Il passaggio cristico è questo: non l’ osservanza della legge, ma la totale identificazione di sé con la volontà di Dio. In questo modo si diventa dèi, figli di Dio (Gv 1,12). Nella Bibbia sono caratteristici questi meccanismi di appartenenza alla tradizione che si rinnova nella propria vita, scanditi da due imperativi: «ascolta» e «ricorda».

A questo proposito c’è una liturgia rivelatrice nel mondo ebraico: durante il Seder di Pesach si legge ai bambini l’Haggadah che narra la liberazione degli ebrei dalla schiavitù, ma secondo più versioni, a seconda del bambino. Occorre prestare attenzione all’uso dei pronomi.

La prima versione riprende il Deuteronomio: «Se tuo figlio domani ti chiederà: “Che cosa sono le testimonianze, le leggi e gli statuti che il Signore nostro Dio vi ordinò?”, dirai a tuo figlio: “Noi fummo schiavi del Faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano forte”» (Dt 6,20-21). In questo passo il bambino dice: «il Signore nostro Dio», dunque chiede di una storia della quale si sente già parte: secondo l’Haggadah questo è il bambino saggio.

Nell’Esodo compare invece un’altra versione: «E avverrà che i vostri figli vi diranno: che significa per voi questo rito?» (Es 12,26). Il primo bambino aveva detto «nostro», mentre il secondo dice «vostro»: il secondo bambino si separa dall’origine, non se ne sente parte, e dunque – per l’Haggadah – è un bambino stolto a cui si risponde con un’ammonizione: «Allora risponderete: “È il sacrificio della Pasqua per il Signore il quale passò oltre le case dei figli di Israele quando colpì gli egiziani”» (Es 12,27).

C’è poi il bambino ingenuo, il bambino che comincia ad apprendere
: «Quando domani tuo figlio ti chiederà cosa significa questo, tu gli risponderai: “Con la forza della sua mano il Signore ci trasse fuori dall’Egitto, dalla casa della schiavitù”» (Es 13,14-15). Poiché il bambino chiede cosa significa «questo», senza distinguere tra noi e voi, la risposta pedagogica dell’adulto è «ci trasse»: cioè «noi», io e te insieme.

La preghiera del Seder mette in evidenza che in questo gioco c’è il modo dell’aderire per sentirsi parte di una continuità.

Ereditare è oltrepassare

Se traiamo le conseguenze di tutto questo e veniamo a noi, vediamo che – indipendentemente da questo modello biblico – nessuno può fare a meno della generazione, pena la perdita della propria identità e la dissoluzione. Se io non conosco la mia tradizione, risulto irriconoscibile a me stesso e – come tutto ciò che perde riferimento – mi diluisco, mi sciolgo, scompaio. Ma posso scomparire anche nel modo opposto, patendo il rito invece che viverlo, fossilizzando la tradizione senza rivitalizzarla con la mia adesione: in questo caso divento sclerotico e mi pietrifico. Se non riesco a capire la novità del mondo, non posso vivere la memoria nel presente: è l’atteggiamento del fondamentalista, nel quale la dimensione difensiva diventa una dimensione autodistruttiva, perché l’identità si conserva nella trasformazione, altrimenti diventa pietrificazione.

Allora ereditare è oltrepassare. In questo modo la fedeltà più vera non è la passività dell’osservanza, ma è lo spirito della legge. Che non significa distruggere a proprio arbitrio ciò che non mi va, ma comprendere la tradizione ricevuta nel contesto del presente per farla valere di più.

In termini laici si potrebbe dire che l’uomo è capace di legge in quanto è capace di autonormarsi, o, in altri termini, è capace di obbedire. Anche l’obbedienza non va intesa nel senso del conformismo passivo, ma secondo l’etimologia propria del termine: oboedentia viene da ab-audio «do ascolto». Anche questo è squisitamente biblico, poiché la preghiera fondamentale delle Scritture è Ascolta Israele. La prima obbedienza è nell’ascolto e nella comprensione della voce dell’altro, non nel conformismo morale, perché soltanto chi ha la capacità di ascolto può dire – come Gesù – che l’uomo vale più del sabato. Senza la capacità di ascolto, il sabato vale più dell’uomo.

La memoria è dunque elaborativa, perché attivata nella novità imprevedibile del mondo.

Il legame con la fedeltà rimane forte, perché io non cambio perché sono infedele, ma perché questo spirito lo devo fare valere nella novità degli eventi. E questa dimensione, se vogliamo anche eversiva, non può avvenire se non c’è la misura del passato perché senza di essa non c’è il confronto, non c’è l’oltrepassamento, non c’è risoluzione.

Nel nostro mondo contemporaneo corriamo molti rischi, poiché la dimensione dell’estemporaneo – per eccesso di corsa – ci ha fatto perdere il passato. Nella nostra società v’è come una sindrome da sradicamento perché non c’è memoria e si vive nell’istantaneo, con tutte le pretese di assoluto che l’istantaneità porta. Si è risucchiati dalla violenza della vita perché non si coltiva il tempo della vita. E poiché la responsabilità è connessa al tempo, non posso essere responsabile se non valuto quanto la mia azione oggi può produrre nel futuro. La responsabilità è radicata nel passato e aperta al futuro.

Oggi, la locuzione «di generazione in generazione» significa responsabilità per l’umanità futura. Ma come si può se l’umanità è un’astrazione? Rispettando l’umanità nell’uomo che ci sta accanto e, soprattutto, nel figlio. Il senso comune lo dice: «per i nostri figli». Lì c’è l’umanità presente e futura. Essere fedeli al futuro non vuol dire proiettarsi in un tempo indeterminato, ma prepararlo nel presente. Ecco perché ho scritto spesso nei miei libri: «non si vive di speranza, perché la speranza inganna. Si vive di perseveranza». Ciò significa far valere il passato nel presente perché, soltanto nella perseveranza, a fronte delle smentite, io continuo a lavorare affinché la vita cresca.

La differenza è che la speranza rischia di essere sentimentale, mentre la perseveranza è etica. Infatti nel Nuovo Testamento la parola «speranza» non appare quasi mai. Appare molto in Paolo, ma in Paolo la nozione di speranza è strettamente connessa alla perseveranza. La verità della speranza è l’effettività della perseveranza, perché senza perseveranza c’è infedeltà. Ecco l’appello morale, etico. Nel Principio di responsabilità di Hans Jonas ci sono delle pagine bellissime dove si dice che c’è un’umanità nel singolare, ma c’è un singolare che, se non è amato, muore.

Concludo con una discussione dal Bereshit Rabbah, il commento alla Genesi, a proposito di quale fosse l’espressione più importante della Bibbia. «Allora Ben‘Azzaj disse: “Questo è il libro delle generazioni di Adamo, è una grande regola della Torah”. Rabbi Aqiva disse: “Amerai il prossimo come te stesso, questa è una grande regola della Torah. Che tu non dica: ‘Dal momento in cui sono stato disprezzato, sarà disprezzato il mio compagno con me; dal momento in cui sono stato maledetto, sarà maledetto il mio compagno con me”. Disse Rabbi Tau: “Se hai fatto ciò sappi che tu disprezzi “a immagine di Dio lo fece”». Di queste due espressioni quella più profonda è «la generazione di Adamo». Perché io posso volere per l’altro, quello che voglio per me solo se nell’altro vedo la comune umanità della generazione di Adamo. Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, ma nella Bibbia questa espressione è usata solo per Adamo. E Adamo generò a sua immagine e somiglianza, cioè fece passare nell’umanità tutta il volto di Dio. Posso amare l’altro soltanto se vedo in lui l’umanità della specie, la pietas che lega i popoli tra loro in base ad una comune somiglianza che, quand’anche non esistesse Dio, è la somiglianza che gli uomini hanno tra di loro, in quanto unica specie mortale che si preserva solo se si ama, e che se non si ama si distrugge.

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ZENIT Staff

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