L'uomo e il Papa che fu Giovanni Paolo II

Parla mons. Slawomir Oder, postulatore della causa del Papa polacco (II)

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di Anita S. Bourdin e Sergio Mora

ROMA, giovedì, 7 aprile 2011 (ZENIT.org).- Karol Wojtyla è stato un grande intellettuale, un Papa giovane e coraggioso, abituato alle difficoltà patite sotto un regime totalitario e che non cercava di essere “politicamente corretto”, benché sempre uomo di dialogo.

Fu anche un Papa che fece dell’accettazione della malattia una catechesi vivente, un uomo che viveva la mortificazione volontaria alla maniera carmelitana, che si battè contro la guerra e contro l’aborto.

Nella seconda parte di questa intervista a ZENIT, mons. Slawomir Oder, postulatore della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, non si sottrae a nessuna domanda sul Papa polacco, anche a quelle riguardanti la questione degli abusi sessuali da parte del clero, o il caso Maciel.

A causa della sua condizione mistica si trovava un po’ solo rispetto agli altri, perché era un comunicatore…

Mons. Oder: L’incontro con il Signore è sempre un cammino solitario. E’ chiaro che siamo sostenuti dalla Chiesa, dai fratelli nella fede, però poi ognuno di noi deve percorrere quel sentiero da solo. Il suo rapporto era personale e individuale, molto profondo. Le persone che lo hanno assistito dicono spesso che avevano la chiara percezione di trovarsi di fronte a un momento, per così dire, di raptus mistico, nel quale egli si trovava in un dialogo così profondo con il Signore che l’unica cosa che si poteva fare era tirarsi indietro e lasciargli vivere quel momento.

In questo dialogo c’era qualcosa che potesse far pensare a una croce per Giovanni Paolo II? Parlava molto della sofferenza e della solidarietà. C’erano delle cose che lo turbavano da questo punto di vista?

Mons. Oder: Un uomo con una sensibilità grande come la sua non poteva restare indifferente di fronte alle sofferenze del mondo. E noi l’abbiamo constatato; era molto vigile, attento a qualsiasi cosa avvenisse nel mondo. Non temeva di alzare la voce e di dire anche le cose che non corrispondevano al modo comune di pensare. Basta citare il suo appello accorato alla pace alla vigilia del conflitto del Golfo, quando diceva “Io appartengo alla generazione che conosce la guerra”. Sono state parole molto forti. Sicuramente un pensiero che non si conformava al “politicamente corretto”…

Di sicuro la cosa che ha sempre avuto nel cuore come un grande pensiero era quel silenzioso genocidio che avviene con l’aborto. La domanda sulla ricchezza della vita umana fin dal concepimento, questa sì che è stata sicuramente una croce e un dolore costante nella sua vita…

La figura di Giovanni Paolo II è in qualche modo “sfuggita” alle autorità polacche, a tutto l’apparato? Non lo hanno forse capito? Perché se avessero capito chi era lo avrebbero messo fuori gioco, no?

Mons. Oder: Lo temevano. Ci sono infatti tracce nella documentazione dei Servizi segreti che parlano della pericolosità di Karol Wojtyła. Era pericoloso perché era un intellettuale sublime, un uomo di dialogo, dal punto di vista morale era inattaccabile. Proprio per questo era pericoloso. Perché era un uomo tutto d’un pezzo: un pezzo di uomo di Dio, un uomo di dialogo, di apertura, assolutamente preparato a livello intellettuale, superiore, e lo temevano, sì. Penso però che, come sempre, il Signore è più grande di loro. Il maligno faceva i suoi conti e Dio faceva i propri. Karol Wojtyła non è sfuggito all’attenzione dei comunisti.

Certo, forse temevano di più il Cardinal Wyszyński, perché era un uomo diverso, anche nel modo in cui si poneva di fronte all’autorità. Eppure la Provvidenza ha portato avanti la storia di Wojtyła in questo modo.

Ricordo, quando è stato eletto, l’imbarazzo dei giornalisti, che non sapevano come trasmettere questa notizia, che però era vitale per la Polonia. Era una delle tante informazioni che hanno dato durante il telegiornale. Ma dovevano darla.

Ricordo anche il primo viaggio che ha fatto. Era una cosa sconvolgente: non sapevano come invitarlo, chi doveva invitare. Era invitato dalla Chiesa, ma era anche ospite del Governo. Trovarono un escamotage diplomatico per farlo andare, perché comunque, come polacco, poteva tornare. E’ voluto tornare ed è tornato portando veramente il lievito della rivoluzione dello spirito. In quel primo viaggio si vedeva come i media polacchi fossero strumentalizzati. Se si guardano le riprese delle trasmissioni, si vede soltanto il primo piano del Papa o qualche anziano, senza alcuna traccia dei milioni di persone che circondavano il Pontefice. Nessun volto giovane, nessuna famiglia.

Quando Giovanni Paolo II è asceso al soglio pontificio, nella Chiesa c’era una serie di problemi che sembravano quasi senza uscita: da un lato la teologia della liberazione, dall’altro lo scisma lefebvriano. E alla fine del pontificato sono stati compiuti moltissimi passi per unire la Chiesa e risolvere questi problemi…

Mons. Oder: Sì, sicuramente è stato un Papa che ha provvidenzialmente portato nel suo ministero petrino energia, era un Papa giovane. Era anche un Papa abituato a confrontarsi con l’ostilità: la Chiesa in Polonia di fronte al comunismo. Un Papa di grande preparazione intellettuale e culturale, scientifica, un Pontefice di grande sensibilità anche estetica, attento a tanti valori.

Ha saputo ridare freschezza alla Chiesa, facendo sempre riferimento alla freschezza che ha dato il Concilio Vaticano II. E’ il Papa che ha attualizzato, che ha portato avanti il pensiero del Vaticano II. E in questo senso ha compiuto moltissimi passi, ha intrapreso tante attività che hanno potuto rinsaldare un po’ la barca della Chiesa.

Dall’inizio alla fine del pontificato si vede che c’è stato un enorme passo in avanti in questo senso.

Mons. Oder: Sicuramente un rinnovamento della fede, dell’entusiasmo evangelico.

Sono Papa perché Vescovo di Roma”. Come ha vissuto questo aspetto?

Mons. Oder: Si sentiva molto Vescovo di Roma, e lo ripeteva spesso, “Io sono Papa perché sono Vescovo di Roma”. E questo significa una sua scelta come impostazione del pontificato. Ha mantenuto sempre un interesse particolare per la sua Diocesi. Segno di questo interesse sono le frequenti visite pastorali.

Ci sono due momenti nei quali ho visto il Santo Padre alterarsi: in un intervento a difesa della famiglia e contro la mafia in Sicilia. In entrambi i casi perché era in gioco la vita?

Mons. Oder: Sicuramente, per la vita ma anche perché in gioco c’era la verità sull’uomo. Era un Papa che ha impostato il suo pontificato in chiave molto umanistica, nel senso evangelico. La sua prima enciclica, Redemptor hominis, dà una giusta prospettiva di come comprendere appunto la centralità dell’uomo, che ha però al centro della sua esistenza Cristo stesso; un umanesimo cristiano, quindi. Questa sua preoccupazione per la vita umana in ogni sua dimensione partiva dal concetto cristiano che aveva sulla vita, per la quale il Salvatore ha dato la propria.

C’è una santità e una paternità. Lui ha parlato di questa paternità. Mi sono sempre chiesto se un giorno ci sarebbe stata la beatificazione del padre di Wojtyła, perché è una figura paterna straordinaria che ha veramente segnato suo figlio.

Mons. Oder: Assolutamente sì. Guardando questa famiglia si vede in che modo abbia operato il Signore. Giovanni Paolo II diceva sempre che è stato il suo primo maestro di spiritualità, la prima guida nella vita spirituale, il primo seminario che ha frequentato. Sicuramente aveva l’immagine di questo padre, di questo militare, soldato, che si inginocchiava e pregava la notte davanti all’icona della Vergine. Sono cose che rimangono nel cuore di un ragazzo. Un uomo che aveva accompagnato il suo bambino per mano in pellegrinaggio a Czestochowa. L’ha iniziato alla preghiera. Ma c’era anche la figura del fratello, di nome Edmund, anch’egli una persona fuori
dal comune, che si dedicò completamente alla carità, pagando poi in prima persona.

È lui che ha voluto la beatificazione dei genitori di Teresa di Lisieux. Aveva nella sua famiglia questo senso che gli sposi possono essere beatificati…

Mons. Oder: Mi è difficile dirlo, ma sicuramente aveva un esempio straordinario nella vita. Ad ogni modo, ha dato chiari segni di essere veramente convinto della verità ribadita dal Concilio Vaticano II, cioè della vocazione universale alla santità di tutti cristiani, e con le sue beatificazioni e canonizzazioni, che investono tutto il tessuto della Chiesa, ha dato un segno tangibile che è possibile per tutti.

Come ha vissuto verso la fine del pontificato? Perché all’inizio non si sapeva molto del problema dei sacerdoti pedofili, degli abusi… Se per un cristiano è molto grave, chissà come deve essere per un Papa…

Mons. Oder: Basta pensare alla sua reazione quando è venuto fuori il problema, la convocazione dei Vescovi americani qui a Roma per affrontare la questione. Quando veniva direttamente a conoscenza di queste situazioni dolorose era coinvolto e determinato a dare una risposta adeguata.

E’ stato lui a promulgare le nuove regole che riguardavano questo tipo di crimini, come strumento giuridico per risolvere tali situazioni.

Per un Papa deve essere tremendo. Era un qualcosa che accadeva dentro la propria “casa”. Non è il comunismo, il nemico esterno…

Mons. Oder: Lei stesso ha dato la risposta. Dobbiamo ricordare, comunque, che certe situazioni, con la loro gravità ed estensione, si sono conosciute soltanto con il tempo. Di certe situazioni non era neanche a conoscenza, o almeno di tutta la loro profondità e gravità.

Davanti a situazioni di una certa gravità che lo vedevano coinvolto personalmente per la necessità di prendere decisioni e provvedimenti, agiva veramente da credente: come sacerdote digiunava, pregava e si mortificava. Sono questi gli strumenti che si hanno di fronte alle situazioni che non dipendono da noi, ma alle quali possiamo rispondere soltanto aumentando il bene che si oppone alla realtà del male.

Una volta anziano sono diventati palesi i sacrifici della sua vita, mentre sono meno conosciuti quelli di quando era più giovane. Può dirci qualcosa di più dei digiuni e sacrifici di cui parla?

Mons. Oder: La sofferenza causata dalla malattia è stata un aspetto che alla fine dei suoi giorni è diventato quasi un’icona del suo pontificato, ma non era l’unica dimensione della mortificazione nella sua vita.

Fin da giovane è stato iniziato alla spiritualità carmelitana. Era affascinato dal Carmelo, tanto che quando era ancora ragazzo pensava di avere una vocazione carmelitana. Era rimasto affascinato da San Giovanni della Croce, da Santa Teresa, da Santa Teresina, e allora anche le pratiche di penitenza personale erano presenti nella sua vita. Questo era un aspetto che nessuno conosceva, che abbiamo saputo soltanto nel contesto del processo, e ricordo che ha sconvolto tanti quando è venuto fuori. Eppure sì. È stato un segno della sua profonda fede, della sua vita spirituale.

Quali fatti sono venuti fuori in questo senso?

Mons. Oder: Sono state le persone più vicine a lui, che hanno avuto una frequentazione quotidiana con il Papa, ad accorgersi di certe situazioni.

A proposito di sofferenza, ho saputo recentemente che già da Vescovo di Cracovia aveva scritto una lettera ai malati per affidare a loro, alla loro intercessione, il suo episcopato. E’ davvero una chiave della fecondità di questo pontificato. Il Papa malato che non solo partecipa alla croce, ma si appoggia a questa comunione nella Chiesa.

Mons. Oder: Assolutamente sì, ma questo è il senso cristiano anche della sofferenza. Non ha soltanto affidato ai malati il suo ministero come Vescovo di Cracovia. Durante i lavori del Concilio Vaticano II, chiedeva agli ammalati un sostegno proprio ai fini di una buona riuscita del Concilio. Li faceva partecipi di questo evento straordinario. Penso che la lettera “Salvifici doloris” dia una prospettiva di quella che è la visione di Giovanni Paolo II, del senso cristiano della sofferenza, quando parla della personale partecipazione alle sofferenze di Cristo, ma anche quando parla del Vangelo del buon samaritano, che viene scritto praticamente intorno a questa realtà della sofferenza.

E ha voluto, appunto, questa fondazione del “Buon samaritano” per i malati di AIDS…

Mons. Oder: Bisogna ricordare che, per quanto riguarda il mondo della sofferenza, è lui che ha creato il Pontificio Consiglio per la Pastorale Sanitaria.

C’è stata un’altra questione dolorosa… è venuto fuori tutto il caso di padre Maciel, dei Legionari di Cristo. Lui l’ha saputo. E’ venuto praticamente fuori alla fine del suo pontificato..

Mons. Oder: Abbiamo compiuto tutte le indagini che, naturalmente, erano mirate ad approfondire questo caso molto doloroso per la Chiesa, che effettivamente è esploso, in pratica, dopo la morte di Giovanni Paolo II. Si deve però ricordare che le indagini sono state avviate durante il suo pontificato. E comunque, da queste indagini che abbiamo svolto in base alla documentazione si può escludere qualsiasi coinvolgimento personale del Santo Padre in questa vicenda, nel senso che, effettivamente, la sua conoscenza al momento della morte non andava praticamente al di là di quella che era la conoscenza comune.

E’ stato un po’ uno “scandalo”, nel senso che in un mondo in cui tutti hanno paura di invecchiare, di non essere efficienti, ha portato fino alla fine la sua malattia, senza nasconderla. E vedere poi le migliaia di persone che si sono messe in fila in Via della Conciliazione per vederlo… Qual è stato l’aspetto che l’ha maggiormente colpita di Giovanni Paolo II?

Mons. Oder: La sua incapacità di parlare, quando è rimasto muto, quando non poteva più dire niente, ma semplicemente perseverava, rimaneva, esprimeva la sua vicinanza, il suo amore, il suo “eccomi” davanti al Signore, senza nascondere questo aspetto. Lì forse, veramente, ci ha offerto gli esercizi spirituali più grandi, senza dire nulla, semplicemente come testimone. E’ stato un modo molto sereno di portare avanti questa realtà che fa parte dell’esperienza umana. Possiamo ritenerla una prospettiva della vita cristiana; anche la sofferenza e la morte fanno parte della vita, naturalmente, come un passaggio. Con questa testimonianza, con questo suo “non vergognarsi”, ha ridato la speranza a tanti, e soprattutto la dignità alle persone che spesso vengono emarginate, chiuse e nascoste, quasi come una vergogna perché portatori di malattie, di vecchiaia.

Viviamo in una civiltà che vuole, in qualche modo, esorcizzare la morte, come negli Stati Uniti, dove c’è tutta un’industria per abbellire la morte, che non appare quasi come morte. Lui è andato avanti nonostante i segni della sofferenza, della morte che si stava avvicinando, facendo capire che è una stagione della vita.

[La terza parte dell’intervista verrà pubblicata venerdì 8 aprile]

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ZENIT Staff

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