di Paul De Maeyer
ROMA, martedì, 5 aprile 2011 (ZENIT.org).- Quattro medici del Bangladesh, che avevano prodotto un “falso rapporto post-mortem per nascondere la vera causa” del decesso di una 14enne, morta il 31 di gennaio scorso nel General Hospital di Shariatpur (a sud della capitale Dacca) dopo essere stata frustata pubblicamente, verranno messi sotto accusa. Lo ha deciso lunedì 28 marzo l’Alta Corte del Paese. “Siamo inorriditi dall’ampiezza dell’illegalità”, così ha dichiarato uno dei due giudici, AHM Shamsuddin Chowdhury (CNN, 28 marzo). L’accusa mossa nei confronti dei medici è di “occultamento delle prove”, come ha raccontato alla BBC il vice procuratore generale del Bangladesh, ABM Altaf Hossain.
La tragica vicenda della giovane Hena Akhter (nota anche come Hena Begum) è iniziata l’anno scorso, quando la quiete della sua famiglia, che vive in una capanna nel villaggio di Chamta nel distretto di Shariatpur, viene turbata dal ritorno di un cugino, Mahbub Khan, che era andato a lavorare per un periodo in Malesia. Anche se sposato, l’uomo quarantenne comincia a mettere gli occhi addosso alla cuginetta quattordicenne e a infastidirla quando va e torna da scuola. Hena, che è la più piccola di cinque fratelli, racconta tutto a suo padre, Darbesh Khan, che si rivolge agli anziani del villaggio. Decidono che Mahbub Khan deve risarcire la famiglia di Hena, ma poi il padre della giovane desiste per non rovinare i rapporti con i parenti.
Chi non lascia perdere invece è il cugino. La sera del 23 gennaio, Mahbub Khan tende un agguato e violenta la sua cuginetta dietro un cespuglio. A sentire le urla della giovane è purtroppo la moglie di Mahbub Khan, che trascina la giovane nella sua capanna e la riempie di botte. Tutto finisce il giorno seguente di nuovo davanti agli anziani del villaggio, che non hanno alcun dubbio: è un caso di adulterio. L’imam locale pronuncia una pesante sentenza. Mentre il cugino viene condannato secondo le norme della shari’a (la legge islamica) a 201 frustate, alla giovane vittima dello stupro spettano 101 colpi di frusta, una decisione sconcertante che viola ogni logica e ogni senso di giustizia. Del resto – come sottolineano le fonti -, le punizioni inflitte in nome della shari’a sono proibite nel Bangladesh.
Le ingiustizie non finiscono qui. Secondo i testimoni, dopo alcune frustate l’aggressore di Hena riesce a liberarsi e a scappare. La giovane invece, che prima del suo supplizio ha reiterato la sua completa innocenza non ha scampo. Cerca di resistere ma crolla dopo aver ricevuto decine di frustate, almeno 50 secondo il Daily Star del 7 febbraio (il maggior quotidiano di lingua inglese del Bangladesh) ma secondo la BBC (9 febbraio) sarebbero state circa 80. Hena viene trasportata solo il giorno successivo – il 25 gennaio – all’ospedale di Shariatpur. Morirà il 31 gennaio dopo una agonia durata sei giorni e un rilascio affrettato avvenuto il 30 gennaio, richiesto dai familiari sotto la “tremenda pressione” dei notabili del villaggio, come ha rivelato un cognato della ragazza al DailyStar.
La sconvolgente storia di Hena giunge al colmo dell’ingiustizia con l’autopsia che viene condotta il 2 febbraio da un gruppo di quattro medici, fra cui il medico legale del distretto di Shariatpur, Golam Sarwar. L’esito dell’esame autoptico lascia a bocca aperta: non ci sono segni di lesioni – ribadisce il rapporto -, anzi Hena sarebbe morta per suicidio. Anche un’inchiesta condotta dalla polizia omette la presenza di lacerazioni, anche se poi il personale medico dell’ospedale di Shariatpur parla di ferite al volto. Secondo un esperto, che ha chiesto l’anonimato, era impossibile non vedere le lacerazioni provocate dalle frustate (The Daily Star, 7 febbraio).
Il clamore e lo sdegno sono tali che interviene l’Alta Corte ed ordina lunedì 7 febbraio la riesumazione della salma di Hena e una seconda autopsia, la quale viene realizzata il giorno successivo nel Dhaka Medical College Hospital. Il secondo rapporto autoptico non lascia spazio a dubbi. “Sono state trovate multiple ferite. La ragazza è morta per dissanguamento”, così ha detto il vice procuratore generale Altaf Hossain al servizio bengalese della BBC (9 febbraio). Un confronto tra i due rapporti effettuato da una commissione creata “ad hoc” è altrettanto netto. È stata comprovata – così ribadisce la commissione – la “negligenza” del medico legale nella preparazione del rapporto della prima autopsia , “il che è contrario all’etica medica” (The Daily Star, 28 marzo).
Anche se secondo il detto “giustizia tardiva non è giustizia”, tutto sembra indicare che i genitori di Hena potranno avere un briciolo di giustizia. Mentre la polizia ha arrestato già varie persone (fra cui il cugino), Darbesh Khan e sua moglie Aklima Begum hanno subìto e continuano a subire pressioni fortissime da parte del villaggio. Come ribadiscono le fonti, la famiglia di Hena è ormai sotto scorta: si teme infatti delle rappresaglie. “Ma che sorta di giustizia è questa?”, aveva detto il padre pochi giorni dopo il decesso della ragazza alla BBC (2 febbraio). “Mia figlia è stata percossa a morte in nome della giustizia. Se fosse stata una vera corte, mia figlia non sarebbe morta”, aveva dichiarato il bracciante agricolo.
Secondo Nicholas Kristof, noto editorialista del New York Times e due volte Premio Pulitzer, la vicenda dimostra che il Bangladesh “ha una robusta società civile, la quale ha reagito al caso con indignazione” (30 marzo). Per fortuna. Come ricorda la BBC, il decesso di Hena è infatti la seconda fatalità legata ad una punizione inflitta in nome della shari’a da quando l’anno scorso la stessa Alta Corte ha messo al bando la prassi e le “fatwa” pronunciate da chierici musulmani. A metà dello scorso dicembre si è spenta nel distretto occidentale di Rajshahi la quarantenne Sufia Begum circa un mese dopo essere stata frustata pubblicamente (il 12 novembre) per una presunta relazione con il suo figliastro. “Aveva il corpo pieno di contusioni e non riuscivo nemmeno a riconoscerla”, così ha raccontato suo fratello, Taimur Rahman (BBC, 20 dicembre 2010).
“Quello che è successo a Hena è deplorevole e tutti noi dobbiamo vergognarci perché non siamo riusciti a salvarle la vita”, ha detto alla CNN (29 marzo) la nota attivista Sultana Kamal, che guida la più antica organizzazione per i diritti umani del Bangladesh, Ain o Shalish Kendro. Secondo la Kamal, che ha puntato anche un dito accusatorio contro “l’islamizzazione sponsorizzata dallo Stato”, il governo di Dacca deve emanare “una legge specifica” per combattere le punizioni extragiudiziali in nome dell’islam. Secondo le ONG, nel Bangladesh vengono emesse ogni anno decine di “fatwa” da chierici locali.
Il ricorso a questo tipo di punizioni, anche per reati minori, si sta lentamente diffondendo nel mondo musulmano, anche in società spesso considerate “moderate” o “moderne”, come Indonesia – la provincia di Aceh – e Malesia. In quest’ultimo paese, sono state frustate per la prima volta nel febbraio 2010 tre donne per aver avuto rapporti sessuali al di fuori del matrimonio (Al Jazeera, 18 febbraio 2010). Molto clamore nei media internazionali lo ha suscitato anche il caso della modella malese Kartika Sari Dewi Shukarno, condannata nel luglio del 2009 da una corte islamica a sei colpi di canna per aver bevuto una birra in un albergo. Secondo Amnesty International, il fenomeno delle frustate ha raggiunto ormai in Malesia proporzioni epidemiche. Nel paese asiatico, sono stati frustati per vari reati legati all’immigrazione ben 29.759 lavoratori stranieri nel periodo 2005-2010 (Agence France-Presse, 14 marzo). Chissà che non sia stato proprio questo a spingere il cugino di Hena ad andar via dalla Malesia per ritornare in Bangladesh…