di Rafael Navarro Valls*
ROMA, mercoledì, 30 marzo 2011 (ZENIT.org).- Non capita di frequente che la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ribalti una sentenza emessa da una delle sue Camere o sezioni. L’eccezionalità è ancor più sorprendente se la sentenza ribaltata è stata adottata (il 3 novembre 2009) all’unanimità.
La sentenza “Lautsi contro Italia” (relativa alla causa di una madre contro lo Stato italiano, per presunta violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per l’esposizione del crocifisso in una scuola) ha innescato un importante discussione sociale in Europa. Quando l’Italia ha fatto appello, si è prodotto un fatto singolare nella storia della CEDU: dieci Stati membri del Consiglio d’Europa hanno chiesto di intervenire in qualità di “terzi” davanti alla Corte, cosa che ha permesso loro di presentare osservazioni scritte e orali. Nessuno Stato ha chiesto di intervenire a difesa della sentenza oggetto dell’appello.
Oltre a quei dieci Stati membri, altri Stati si sono pronunciati contro la sentenza, come l’Austria o la Polonia che hanno emesso dichiarazioni politiche, rispettivamente, il 19 novembre e il 3 dicembre 2009.
Inoltre, sono stati ascoltati 33 membri del Parlamento europeo che hanno chiesto di intervenire, nonché diverse organizzazioni non governative: dalla Commissione internazionale di giuristi, al Centro europeo di diritto e giustizia. Il motivo di questo inusitato interesse sta nel fatto che era in gioco un elemento fondamentale dell’identità europea, uno dei suoi simboli più rappresentativi: il crocifisso.
Il messaggio che la prima sentenza sul caso “Lautsi contro Italia” sembrava trasmettere era paradossale: la religione doveva restare fuori dalla scuola a causa del suo carattere conflittuale, mentre l’ateismo o l’agnosticismo potevano essere collocati in una zona pacifica, esente da turbolenze. Si capisce subito che garantire – come faceva la prima sentenza – a persone che si dichiarano atee il diritto di veder rimossi simboli da loro odiati o che semplicemente ritengono essere falsi, significherebbe dare loro la possibilità di imporre le proprie convinzioni sulla maggioranza. E ciò, senza altra prova se non la semplice affermazione della presunta influenza dei simboli cristiani sulle menti “particolarmente vulnerabili” dei giovani.
In realtà, come afferma il mio collega, il professor Martínez-Torrón, “non risulta alcuna conversione al Cristianesimo in conseguenza della presenza del crocifisso nelle aule”. Per questo la nuova sentenza (chiamiamola “Lautsi II”), del 18 marzo 2011, afferma che, effettivamente, il crocifisso “è soprattutto (anche se non solamente) un simbolo religioso, ma non vi è nulla che dimostri che la sua esposizione sui muri di un’aula scolastica possa avere un’influenza sugli alunni”. La Corte aggiunge che “un crocifisso apposto su un muro è un simbolo essenzialmente passivo, la cui influenza sugli alunni non può essere paragonata a un discorso didattico o a una partecipazione ad attività religiose”.
Diritto all’intolleranza?
Una parte del problema da valutare era la seguente: se i genitori di un solo alunno vogliono un’istruzione “senza crocifisso” e i genitori degli altri ventinove alunni della classe la preferiscono “con crocifisso”, come va tutelato il diritto fondamentale dei genitori di poter scegliere una istruzione che sia in linea con le proprie convinzioni religiose e filosofiche? Sono d’accordo con il giudice Bonello quando, nel suo parere separato, concordante con la sentenza, sostiene che la prima sentenza ha operato una discriminazione contro la maggioranza dei genitori, tutelando le preferenze di uno solo, senza che fosse dimostrato che i figli di questo fossero stati lesi dalla semplice contemplazione occasionale di un simbolo religioso passivo: “mantenere un simbolo lì dove è sempre stato non è un atto di intolleranza dei credenti. Rimuoverlo sarebbe un atto di intolleranza degli agnostici e laicisti”.
Giorni prima che la Grande Chambre emettesse la seconda sentenza sul caso Lautsi, la Corte costituzionale austriaca – senza conoscere l’esito del caso “Lautsi II” – ha espresso la stessa valutazione: che la presenza di un crocifisso è in linea con la Costituzione quando la maggioranza degli alunni presenti è formata da cristiani. La sentenza, emessa sul caso di due genitori che hanno protestato contro una norma della Bassa Austria che permette l’affissione del crocifisso nelle aule, dichiara che questo simbolo non esprime “una preferenza per una religione di Stato o un per un particolare credo religioso”. Una felice coincidenza ex ante con la sentenza definitiva di Strasburgo.
Laicità contro laicismo
Molti anni fa ho ricevuto, da un vecchio costituzionalista, un consiglio che non dimentico mai di seguire: “per comprendere il senso globale di una sentenza importante, non dimenticare di leggere – dopo il dispositivo – i pareri concordanti emessi dai singoli giudici”. Effettivamente, per comprendere tutti gli aspetti della sentenza della Grande Chambre, bisogna tenere conto delle opinioni concordanti allegate dai giudici Rozakis, Bonello e Power. In particolare quella del secondo, a cui ho prima fatto riferimento.
In esse si mette in guardia contro posizioni giuridiche di un certo “vandalismo culturale”, che rischiano di rovinare “secoli di tradizione europea”. Questo avrebbe significato cadere in una sorta di “Alzheimer storico”, di amnesia delle radici culturali dei popoli. Con la prima sentenza, la CEDU tendeva a sostituire i fatti della storia propria di una nazione (in questo caso, le sue radici cristiane) con i propri modelli etici elaborati a migliaia di chilometri da una Corte, in un esercizio di alchimia sperimentale. Ciò avrebbe trasformato un organo giudiziario in un parlamento, esattamente ciò che la sentenza definitiva della Grande Chambre rifiuta.
In fondo, nella sentenza “Lautsi I” era presente una latente condivisione della neutralità dello Stato intesa come “asetticità” religiosa e ideologica, incompatibile con la presenza dei simboli religiosi. Ma questo è impossibile. I simboli – tra cui il crocifisso – con il loro significato multiforme e aperto a percezioni soggettive imprevedibili, sono l’espressione storica e culturale di un Paese, che inevitabilmente è carica di elementi religiosi e ideologici.
La sentenza definitiva (“Lautsi II”) rigetta soprattutto l’idea che possa essere attribuito a un tribunale il diritto di cambiare la percezione sociale maggioritaria di un popolo, su quale sia la funzione della religione nella vita pubblica (“Lautsi I”). Questo non compete ai tribunali, ma ai parlamenti. Nel rettificare la posizione iniziale di una sua sezione (per questo mi sono permesso di intitolare queste brevi riflessioni con il titolo “Lautsi contro Lautsi”), il plenum della CEDU non ha solo reso omaggio alla prudenza giuridica e alla verità storica, ma ha anche restituito fiducia a milioni di europei gelosi delle proprie radici, comprese quelle religiose.
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*Rafael Navarro-Valls è docente della Facoltà di diritto dell’Università Complutense di Madrid e segretario generale della Real Academia de Jurisprudencia y Legislación spagnola.