di Mariaelena Finessi
RABAT, mercoledì, 30 marzo (ZENIT.org).- I vescovi cattolici dell’Africa del nord (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia), sposano l’appello del Papa, lanciato lo scorso 27 marzo, ad una soluzione diplomatica in Libia e sottolineano che tale intervento deve «tenere in conto le aspirazioni alla libertà e alla cittadinanza responsabile».
Monsignor Vincent Landel, arcivescovo di Rabat e presidente della Conferenza episcopale delle Regioni del Nord Africa (Cerna), in questa intervista a ZENIT spiega come è nata la rivoluzione nella terra di Gheddafi e le aspirazioni dei giovani, veri motori del cambiamento. Una proposta, infine, per fermare gli ingenti flussi migratori degli ultimi mesi, esacerbati dalle sommosse nel continente africano.
Molti osservatori parlano di una primavera del mondo arabo che ha colto di sorpresa l’Occidente. Lei cosa ne pensa?
Mons. Landel: Credo si tratti realmente di una «primavera» perché è qualcosa che sente di voler nascere. E come per ogni nascita essa prevede fasi da attraversare e contingenze da superare, specie da parte di coloro che sono in difficoltà non avendo mai avuto la libertà di esprimersi. In tutto questo tempo, l’Occidente si è dilungato in speculazioni riguardo alle successioni al potere in questo o in quell’altro Paese ma, forse, senza mai comprendere a sufficienza ciò che stava accadendo in quelle terre, dove cominciavano ad emergere, ed organizzarsi, questi spiriti vivi e lucidi.
Troppo chiuso sull’aspetto “politico”, l’Occidente in altre parole non ha saputo guardare a tutte le difficoltà sociali che lì andavano imponendosi. E anche se non si può negare che ci sia in gioco l’elemento politico, in tutto questo a far traboccare il vaso è stato il disagio sociale. Ciò che ha però sorpreso in questa forte espressione di volontà popolare è il fatto che i manifestanti non si sono lasciati strumentalizzare da questo o quel partito, sia esso politico che religioso. Hanno saputo essere vigili, passando attraverso una «purificazione politico sociale». Non si sono lasciati ammaliare né comprare.
Dietro queste insurrezioni c’è il popolo, ma non tutto il popolo, bensì una categoria precisa di persone: i giovani, diplomati e disoccupati, frustrati, senza lavoro, senza una casa, senza prospettive di un futuro.
Mons. Landel: E’ vero, non c’è tutto il popolo, perché in ogni Paese ci saranno sempre persone che approfittano del regime esistente o che non sono pronte al cambiamento. Ma il leit motiv di questi capovolgimenti è stato «l’appello alla libertà, alla dignità, alla giustizia» di persone che, obbligate alla sottomissione, hanno deciso di farsi cittadini responsabili. Non c’è mai stata una qualsivoglia volontà religiosa di contenimento. Sono i giovani, disoccupati e diplomati, i rappresentanti di tutti questi esclusi della società che non hanno un lavoro, un alloggio decente e una non sempre buona scolarizzazione. Come pure lo è la classe media che, pur avendo un’occupazione, non è al potere, e vede chiudersi dinanzi a sé il futuro.
Il regno della corruzione e del clientelismo ha annientato molta buona volontà e d’altra parte un potere cieco è stato all’origine del gesto di quel giovane diplomato che si è dato fuoco in Tunisia. Ma la rivolta, in generale, si è svolta in maniera non violenta (ad eccezione della Libia), anche quando alcune forze del vecchio regime sono intervenute a disciplinare l’ordine. Negli altri paesi in cui oggi si sta compiendo la “rivoluzione”, purtroppo sembra che il rumore delle armi si sia fatto sentire molto rapidamente. Perché? In Libia, la situazione è leggermente diversa perché siamo una nazione di “tribù”, quindi la protesta sociale si è mescolata ad una lotta tra clan, soprattutto tra quelli al potere e gli altri, tra quelli che detengono la ricchezza e quelli che invece sono poveri. La Libia, in altre parole, davanti a questo sommovimento non ha avuto la fortuna d’essere una nazione unita, e ciò proprio a causa delle divisioni tribali.
C’è da dire però che sono stati i media ad aver costruito questa nuova mentalità “democratica”. La gente osserva ciò che succede altrove, vede che in altri Paesi c’è libertà di parola e che la differenza di opinione può essere una ricchezza. Il pensiero critico ha cominciato dunque a funzionare e non sa accettare un potere che s’impone senza consenso, senza condivisione e che si fa opprimente. In Marocco il sistema governativo, a partire dal discorso del Re Mohammed VI dello scorso 9 marzo, ha preso in considerazione l’idea di implementare un pacchetto di riforme. Certo, qui come in molti altri luoghi il rischio è di volere tutto e subito, trasformazioni politiche e sviluppo sociale. È necessario però dare tempo al tempo.
Le relazioni tra cristiani e musulmani: secondo lei, sono gli uni accanto agli altri nella lotta per la democrazia e la ricomposizione delle ingiustizie sociali?
Mons. Landel: Per quel poco che so del Medio Oriente, queste “rivoluzioni” non hanno mai toccato la sfera religiosa. Anche in Egitto abbiamo visto giovani musulmani e cristiani manifestare sulla stessa piazza, orgogliosi della propria fede e della propria cittadinanza. Sono gli egiziani dunque, nel loro insieme, ad aver fatto cadere il regime. In molti Paesi occidentali si ha paura invece che i partiti religiosi estremisti possano prendere il potere. Io in realtà penso che i ragazzi non siano disposti a farsi confiscare la loro rivoluzione. Forse “estremisti” lo sono stati, ma quando c’era un regime autoritario. In questa nuova realtà stanno diventando invece molto più moderati.
Ovunque, nel Medio Oriente, si è cristiani e cittadini, con gli stessi diritti e doveri dei musulmani e di altri di fede diversa. Invece nei Paesi del Maghreb (Libia, Tunisia, Algeria, Marocco) i cristiani sono di fatto “stranieri” e quindi non possono essere considerati propriamente dei cittadini. Inoltre, i cristiani del Maghreb sono una piccolissima minoranza che arriva in queste terre solo per un breve periodo di tempo, per ragioni di lavoro o di studio. Qui i cristiani sono coinvolti nello sviluppo del Paese, impegnati per una maggiore giustizia sociale: aspirano ad un diritto di cittadinanza democratica della quale non possono però godere.
Detto questo, ciascuno rimanendo al proprio posto, vi è un rispetto reciproco. E non saranno questi eventi a spezzare i legami intessuti nel corso degli anni. E anche se questa parola è stata utilizzata su entrambe le coste del Mediterraneo, non parliamo di “crociate”. È vero che, per un arabo, l’occidentale è un cristiano. E che, per un occidentale, l’arabo è necessariamente musulmano, ma sono false scorciatoie. Non trasformiamo ciò che sta accadendo in una “guerra di religioni”.
Questi eventi hanno provocato spostamenti di popolazione: in effetti le crisi del mondo arabo hanno accelerato il processo di migrazione e più di 8.500 persone sono sbarcate in Italia dallo scorso gennaio, mentre altri rischiano di non essere accolti con favore. Lei quali politiche migratorie – estremamente concrete e realizzabili – suggerisce?
Mons. Landel: È vero, soprattutto nel caso della Libia, che coloro che avevano un’Ambasciata di riferimento sono tornati ai propri Paesi ma “i più poveri tra i poveri”, quali gli etiopi, gli eritrei e molti sub-sahariani si trovano in Libia non per lavoro ma perché in transito verso l’Europa. E così adesso sono in giro per le strade, sperando di trovare un contrabbandiere che gli permetta di attraversare il mare. Dall’Egitto, e dalla Tunisia, molti lavoratori hanno così raggiunto le coste italiane e tantissimi altri stanno arrivando. Possiamo però incolpare persone che non avendo nulla di cui vivere cercano un futuro in Europa, speranzose di sostenere le famiglie e l’istruzione dei propri figli?
Si tratta di un dramma che non si fermerà fino a quando una certa giustizia internazionale non sarà attuata. Coloro che lascia
no l’Africa non contano certo sulla generosità degli europei: finché il denaro non sarà equamente ripartito tra le nazioni e le persone, continueremo a trovarci in queste situazioni e d’altra parte all’inizio del secolo scorso gli italiani sono arrivati in Francia per gli stessi motivi, ma erano cristiani. Deve esserci una giustizia internazionale che aiuti i paesi africani ad andare avanti. Si ha solo bisogno di un cambio di mentalità.
Quando accendo la TV per sintonizzarmi sui canali occidentali e vedo manifestazioni e scioperi messi in piedi per chiedere maggiori salari, un potere d’acquisto sostenibile, scuole migliori e più eque condizioni di lavoro e salute, allora dico a me stesso che probabilmente ci sono valide ragioni. Ciò nonostante, se queste persone potessero trascorrere un mese in Africa forse il loro atteggiamento cambierebbe.
È vero, c’è corruzione, clientelismo e tante altre cose che però non sono forse anche in Occidente? Fino a quando non accettiamo di condividere la ricchezza del mondo, le migrazioni continueranno. E se siamo cristiani, non ci sono altre ragioni migliori di questa: condividere tutto, non solo il superfluo. Ciò che caratterizza però i migranti di oggi è che la maggioranza di essi è musulmana e nella nostra mente un musulmano è un estremista, un terrorista. Come si può accogliere qualcuno di cui si ha paura! Anche in questo caso vi è una grande conversione da vivere. Noi cristiani che abbiamo la fortuna di abitare in un paese musulmano possiamo assicurarvi che viviamo nella pace e nella serenità i tanti incontri che ci arricchiscono.
L’intervento degli occidentali continua a dividere. Le divisioni all’interno della comunità internazionale rimangono e, ci piaccia o no – come lei ha detto con un comunicato – la guerra in Medio Oriente sarà sempre percepita come una “crociata”. Da dove bisogna iniziare per dialogare e tentare di trovare una soluzione pacifica?
Mons. Landel: Sì, abbiamo usato il termine “crociata” nella dichiarazione della Conferenza episcopale delle Regioni del Nord Africa (Cerna), e lo abbiamo fatto perché è stato usato da entrambe le rive del Mediterraneo, ma il nostro intento non è farne una questione di guerra di religione. Si tratta semplicemente di un appello urgente ad una maggiore libertà, dignità e giustizia e di un forte richiamo a divenire cittadini responsabili e non telecomandati. Ma nel nostro caso, voglio ribadirlo sulla scia di quanto ha detto il Santo Padre, che «la guerra non risolve niente e quando scoppia è incontrollabile come una esplosione di un reattore nucleare». Perché «sedersi ad uno stesso tavolo non è l’unico cammino da prendere assieme per poter riallacciare dei legami che sono stati rotti e ricomporre un tessuto sociale che bandisce vendetta e odio?».