di Paul De Maeyer
ROMA, mercoledì, 30 marzo 2011 (ZENIT.org).- Lunedì 28 marzo, la nota associazione per i diritti umani Amnesty International (AI) ha diffuso il suo rapporto annuale sulla pena di morte nel mondo. Intitolato “Condanne a morte ed esecuzioni nel 2010”, il documento [1] offre un bilancio in chiaroscuro. “Nonostante il progresso e l’impulso positivo, c’è ancora molto lavoro da fare prima di raggiungere il nostro obiettivo dell’abolizione in tutto il mondo”, così ammette nella prefazione al rapporto il segretario generale di AI, Salil Shetty.
Il documento menziona in effetti alcune tendenze positive, in primo luogo il fatto che il numero di paesi “abolizionisti” continua ad aumentare. “Durante gli ultimi 10 anni, il progresso fatto verso l’abolizione è stato enorme, con più di 30 paesi che hanno posto fine alla pena di morte”, osserva Shetty. Nel corso del 2010, il Gabon ha eliminato completamente la pena capitale, diventando in questo modo il 16° Paese dell’Unione Africana (UA) ad abolirla. Altri quattro Paesi potrebbero seguire ancora quest’anno le orme del Gabon: proposte di legge a favore dell’abolizione della pena di morte attendono l’esame da parte dei Parlamenti di Corea del Sud, Libano, Mali e Mongolia.
Come ricorda AI, attualmente 96 Paesi del mondo hanno eliminato la pena capitale per ogni reato. Mentre 9 altri Paesi hanno mantenuto la pratica solo per reati eccezionali (ad esempio in tempo di guerra), 34 nazioni l’hanno abolita “de facto”, nel senso che da almeno dieci anni non vengono più eseguite condanne a morte o che i governi in questione hanno preso impegni internazionali a non compiere esecuzioni. In totale, 139 Paesi del globo hanno dunque abolito “de iure” o “de facto” la pena di morte.
Nel 2010 è sceso anche il numero delle sentenze a morte emesse nel mondo. Secondo le informazioni di AI, l’anno scorso sono state pronunciate almeno 2.024 condanne capitali in 67 diversi Paesi del globo. “Si tratta – così ricorda comunque il rapporto – del dato minimo confermato dalla nostra ricerca”.
Un altro elemento positivo è che rispetto al 2009 il numero delle esecuzioni ufficialmente registrate è sceso: da almeno 714 dell’anno scorso ad almeno 527. La tendenza al ribasso è presente anche negli Stati Uniti, l’unico Paese delle Americhe ad applicare le sentenze capitali: da 52 esecuzioni nel 2009 a 46 nel 2010. Sempre negli USA, un detenuto è stato rilasciato dal braccio della morte nel corso del 2010 perché ritenuto innocente. Il 9 marzo scorso, l’Illinois è diventato il 16° Stato USA a rinunciare alla pena di morte.
Purtroppo, c’è un “ma”. Per il secondo anno consecutivo, le statistiche di AI non includono infatti le “migliaia” di condanne a morte compiute in Cina. “Nel 2009, Amnesty International decise di non pubblicare i dati minimi delle esecuzioni di cui era a conoscenza in Cina, dove tali statistiche sono considerate segreto di Stato”, si legge nel rapporto. “Con questa decisione, confermata anche per il 2010, Amnesty International ha sfidato le autorità cinesi a pubblicare i dati concernenti il numero di persone condannate a morte e il numero delle esecuzioni così da confermare l’effettiva riduzione, da loro rivendicata”, continua il documento.
La Cina è del resto uno dei Paesi, in cui la pena di morte viene comminata per reati legati alla droga. Proprio oggi, mercoledì 30 marzo, Pechino ha messo a morte tramite iniezione letale tre cittadini filippini, accusati di aver introdotto grandi quantità di stupefacenti nel Paese. Mentre 74 altri filippini rischiano la morte in Cina, secondo UCA News per lo stesso reato, la politica di Pechino è stata criticata fortemente dai vescovi cattolici delle Filippine. “La pena di morte elimina la speranza, è una decisione definitiva che toglie ogni possibilità cambiamento”, ha dichiarato un presule, che per motivi di sicurezza ha preferito mantenere l’anonimato (AsiaNews, 29 marzo). “Aiutiamo le persone a cambiare senza ucciderle”, ha continuato il vescovo.
Un altro passo “indietro” è il fatto che nel 2010 almeno 23 Paesi del mondo hanno eseguito sentenze capitali, cioè quattro in più rispetto al 2009, quando Amnesty registrò il minor numero dall’inizio del suo monitoraggio. Fra i Paesi che hanno ripreso le esecuzioni spicca la Bielorussia di Aleksandr Lukashenko, “l’ultimo dittatore d’Europa”. Nel Paese, la pena di morte non è solo classificata come segreto di Stato ma le autorità di Minsk non informano neanche i condannati a morte della loro imminente esecuzione, né i loro familiari o legali. Dopo l’esecuzione, inoltre, il corpo non viene neppure restituito alla famiglia.
Il rapporto di AI dedica molta attenzione alla situazione in Iran, il Paese che dopo la Cina vanta il più alto numero di esecuzioni: nel corso del 2010 se ne sono contate almeno 252. Ma tutto indica che il numero reale è più elevato (secondo alcuni persino il doppio). Non mancano infatti le segnalazioni di esecuzioni segrete, anche di massa. Secondo le informazioni raccolte da AI, nell’agosto scorso una sessantina di persone è stata messa a morte, fra cui anche un cittadino nigeriano (la cui ambasciata non era stata informata dall’imminente esecuzione), nel carcere di Vakilabad, a Mashad, nell’estremo nord-est del Paese, verso il confine con il Turkmenistan e l’Afghanistan. Nello stesso carcere, sarebbero state messe a morte il 7 febbraio scorso dieci persone per reati connessi alla droga, fra cui anche cinque afghani. A rivelarlo è l’emittente Radiozamaneh (9 febbraio), basandosi sulle informazioni dell’International Campaign for Human Rights in Iran.
Mentre dal Paese non sono giunte notizie di lapidazioni, il regime degli ayatollah continua ad infliggere la pena capitale per reati vagamente definiti come “offesa contro Dio” (moharebeh), sentenze pronunciate d’altronde dopo processi “iniqui” ed in aperta violazione degli standard internazionali. La giustizia iraniana manda al patibolo infatti anche persone che al momento del reato erano minori. A Marvdasht, nel sud dell’Iran, è stato messo a morte nel luglio scorso un uomo per un reato commesso quando non aveva ancora compiuto 18 anni.
Un caso particolare è il Pakistan. Nel giugno del 2008 il primo ministro Yousaf Raza Gilani aveva promesso la commutazione in ergastolo di tutte le sentenze capitali, ma ciononostante i bracci della morte del Paese accoglievano nel 2010 ancora circa 8.000 persone. Una di loro è Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte tramite impiccagione nel novembre scorso sulla base della molto discussa legge antiblasfemia. Come ribadito dal rapporto di Amnesty, il suo processo è stato “fortemente iniquo”. Il giudice Naveed Iqbal ha escluso ad esempio “del tutto” la possibilità di false accuse ed ha negato inoltre l’esistenza di “circostanze attenuanti”.
Secondo i dati di AI, alla fine del 2010 le persone condannate a morte nel mondo erano circa 17.833, di cui dunque quasi la metà in Pakistan e più di 3.200 negli USA. Lunedì 28 marzo, la Corte Suprema di Washington ha respinto d’altronde un ricorso presentato da Troy Davis, aprendo in questo modo la strada all’esecuzione del detenuto quarantunenne. Condannato alla massima pena nel 1991 per aver ucciso nel 1989 a Savannah, nello Stato della Georgia, un agente di polizia fuori servizio, Davis si è sempre proclamato innocente. Come ricordato dal Christian Science Monitor (28 marzo), varie personalità, tra cui l’ex presidente USA Jimmy Carter (1977-1981) e Papa Benedetto XVI, hanno chiesto di concedergli la grazia. Mancano, infatti, l’arma utilizzata per uccidere il poliziotto Mark MacPhail ed altri elementi riconducibili a Davis (impronte digitali o tracce del suo DNA).
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1) Per scaricare il rapporto di AI: http://www.amnesty.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/f%252F7%252Fc%252FD.970f3f9d1109b4b26a86/P/BLOB%3AID%3
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