Nel “Gesù di Nazaret” del Papa, la critica al relativismo contemporaneo

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ROMA, giovedì, 24 marzo 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito alcuni stralci del testo che il Vescovo di Ratisbona, mons. Gerhard Ludwig Müller, ha letto durante l’incontro “Gesù di Nazaret, presentazione del secondo volume di Benedetto XVI”, secondo appuntamento del ciclo di conferenze “Dialoghi in cattedrale”, che si è svolto giovedì sera nella Basilica di San Giovanni in Laterano.

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Nel sesto anno del pontificato di Sua Santità Papa Benedetto XVI è apparso ora il secondo dei suoi tre volumi dedicati alla figura di Gesù. La prima parte della trilogia era dedicata al periodo «Dal Battesimo nel Giordano fino alla Trasfigurazione», mentre la seconda, attualmente in uscita, è intitolata «Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione».

In nove capitoli, il Santo Padre sviluppa le grandi scene della Passione. Scene chiave per la comprensione della persona di Gesù e della sua missione: Chi è Gesù rispetto a Dio, Suo Padre? E che cosa significa Egli per noi? L’autore riflette e spiega in dettaglio il senso e il significato dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme e della purificazione del Tempio; seguono il discorso escatologico sulla fine del Tempio e l’avvento dell’era pagana; la lavanda dei piedi; la Preghiera sacerdotale; l’ultima cena con l’istituzione dell’Eucarestia quale sacramento centrale della Chiesa; il processo a Gesù; la sua crocifissione, la deposizione nel sepolcro e la successiva risurrezione; infine un’analisi degli enunciati del Credo: «È salito al cielo, siede alla destra del Padre e di nuovo verrà nella gloria».

Si tratta di un’opera imponente e di un impegno ammirevole, di cui il Papa ha voluto farsi carico accanto alle sue già enormi incombenze e responsabilità per la Chiesa universale — e malgrado la sua veneranda età.

Qualcuno si domanda se il Pontefice non farebbe meglio a porre un lavoro di carattere strettamente scientifico nelle mani di professori di esegesi e di storia di più giovani e, a dir loro, più competenti. Non lo attendono forse compiti ben più importanti, ora che la navicella di Pietro è in balía dei crescenti marosi del secolarismo e che, per far fronte alle sempre più violente ondate anticlericali, la Chiesa ha bisogno di tutto l’impegno del suo timoniere? A simili obiezioni, io controbatto: il compito di san Pietro non è appunto di richiamare l’attenzione generale su quell’unico passeggero in grado di arrestare il vento e le onde, e di condurre la nave della sua Chiesa nel porto sicuro dell’eternità?

Rendere accessibile la figura di Gesù agli uomini che rischiano di essere travolti dalle bufere del tempo e della storia, è senz’altro un’impresa che va di gran lunga al di la della passione di un ex professore di teologia, la cui occupazione preferita è quella di scrivere libri.

Perché qui non si tratta di un ulteriore libro su Gesù. Che il mondo intero non sarebbe bastato a contenere tutti i libri che si potrebbero scrivere intorno a Gesù, lo sapeva già l’evangelista Giovanni nel primo secolo (cfr. Giovanni, 21, 25). Si tratta invece di occuparsi direttamente di Gesù stesso e, tramite lui, del nostro rapporto con Dio. Malgrado l’enorme importanza della Bibbia nella vita della Chiesa, il cristianesimo non è una religione del libro. La fede cristiana è incontro con una persona. E la cosa del tutto unica in Gesù è che, accostandomi a Lui, io ho a che fare personalmente con Dio. Al contempo, mi so perfettamente compreso e sostenuto da Lui nella mia personale vicenda esistenziale, nei miei patimenti, speranze e paure.

Gesù è decisivo per la riuscita o il fallimento della mia vita. Gesù è vero Dio, è il Figlio nella comunione trinitaria di Padre, Figlio e Spirito. Ma Gesù è anche, attraverso l’incarnazione del Verbo divino, un uomo come me, fino alla morte che ha patito sulla croce per garantirci la prospettiva di una vita eterna.

Nel Vangelo di Giovanni si puntualizza che quel libro non è stato scritto come una biografia storica, per informarci, con il corredo di sociologia e psicologia, sulle vicende e il destino di un personaggio storico, bensì «perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Giovanni, 20, 31).

Così anche Papa Benedetto XVI, in un’epoca di dubbi crescenti, di incertezza su come trasmettere la fede in un’Europa profondamente confusa circa la propria identità cristiana, senza metro né traguardo, senza provenienza né futuro, in una situazione di crisi generale dell’intera umanità, ha scritto questo libro affinché gli uomini possano nuovamente orientarsi verso Gesù. Perché solo l’orientamento al Dio-Uomo può salvarci, non l’irrigidimento su un’ideologia, su una costruzione mentale di matrice umana, su una «pax sovietica», o «americana», o «cinese» che dir si voglia, o su un modello di society puramente economico e scientifico.

Per quanto prezioso sia infatti l’intelletto umano, e per quanto fides e ratio, come una coppia di amanti, non possano fare a meno l’una dell’altra con una teoria e una prassi del mondo scisse dalla cognizione di Dio, vale a dire tramite la filosofia e l’etica, non potremo mai giungere alla conoscenza assoluta della realtà del mondo e dell’uomo, né innalzarci a redentori di noi stessi.

Il fondamentalismo e il relativismo sono i fratelli gemelli del soggettivismo — la fede come opinione o decisione discrezionale del soggetto — mentre la professione cristiana è costruita sulla realtà, da Dio stesso stabilita, del Figlio di Dio divenuto uomo; «in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (Atti, 4, 12).

Il Cristianesimo è sostanzialmente ed essenzialmente una relazione tra persona e persona, e non tra persona e idea o legge morale, o spirito oggettivo di diritto, o scienza, religione, cultura e filosofia. La fede è il rapporto dell’uomo con Gesù e, tramite lui, con Dio e, in ciò, anche comunione di vita con Dio e comunione di vita con tutti quelli che gli appartengono nella Chiesa, in quanto comunione di fede, di speranza e di amore. La mia personalità si sviluppa in rapporto alla persona di mia madre, di mio padre, ai miei fratelli, amici e maestri, e non all’idea di genitorialità, al piano funzionale d’insegnamento, alle strutture del sistema educativo o al sistema accademico-universitario. La relazione tra le persone è sempre preminente rispetto alla sfera materiale e agli elementi fattuali, onde evitare che l’uomo «perda la propria anima».

Come pastore di anime, il Santo Padre desidera incoraggiare i dubbiosi e rafforzare tutti i fratelli e le sorelle nella fede (cfr. Luca, 22, 32). Possiamo infatti tranquillamente sottoporre la fede cristiana, la testimonianza biblica e tutta la tradizione apostolica e il magistero della Chiesa cattolica ai più spinosi interrogativi della storia e dello scetticismo filosofico. Attraverso questa decantazione da illuminismo e critica della religione, risalta in maniera ancor più manifesta e convincente che la nostra fede è dovuta alla reale autorivelazione di Dio e che il nostro rapporto con Gesù si regge su un saldo fondamento storico.

La filosofia critica e la metodologia storico-critica dell’esegesi biblica, poste al servizio della scienza della fede, possono confermare la storicità della Rivelazione e l’attendibilità dei Vangeli quali testimonianze della persona e della storia di Gesù, se accettano di liberarsi dell’infondato e aprioristico convincimento che l’uomo sia incapace di trascendenza dell’uomo.

Il nostro rapporto con Gesù è un rapporto di riconoscimento della sua persona nel segno dell’amore; amore non inteso ovviamente come un mero sentimento a lato del confronto razionale con le fonti storiche. Qui amore significa accettare qualcun altro senza riserve e sperimentare al contempo che l’altro ci riconosce e ci accetta in maniera
perfetta. Ancora oggi Gesù è per molta gente un modello in senso morale ed umanitario, e tanti si identificano con lui. Ma questa identificazione unilaterale con un altro, non significa ancora amicizia e amore. Può trattarsi ancora di semplice narcisismo, se mi limito a strumentalizzare l’altro come modello per me stesso. Per dirla in termini teologici: Gesù per noi non è solo exemplum, è anche donum. Egli si dona a me come presenza divina nel mio cuore e nella mia vicenda esistenziale e nell’intera storia dell’umanità. Noi viviamo in Dio nella misura in cui egli vive in noi. Perciò l’incontro d’amore con Gesù è redenzione e Shalom di Dio, non solo perché io come creatura cerco di identificarmi con Dio, ma perché Dio si identifica con la sua creatura, e ci amava già quando eravamo ancora peccatori (1 Giovanni, 4, 10-16).

Il Signore risorto chiede a Pietro: «Mi ami tu più di questi altri?». E per tre volte Pietro, riconsiderando turbato e pieno di rimorso il proprio tradimento, risponde: «Lo sai che ti amo». E Gesù gli affida i suoi agnelli e le sue pecore (cfr. Giovanni, 21, 15-19). È quindi sommamente opportuno che oggi a Roma, il luogo glorioso del suo martirio, Pietro, insieme a san Paolo testimoni nuovamente la nostra volontà di glorificare Dio, operando per il suo Regno fino alla morte. Il successore di Pietro, malgrado l’età avanzata, si è dunque accollato le fatiche di una trilogia che alla fine si aggirerà intorno alle 1200 pagine, per far sì che riconosciamo quella gloria e libertà di figli di Dio che con Gesù ci è stata donata in una misura che trascende ogni dimensione umana, ed individuiamo il senso della nostra vita nell’esortazione di Gesù a seguirlo.

Né il «Prometeo-Hegel» né il «Sisifo-Marx» sono in grado di assoggettare il mondo al potere dell’uomo. Le loro interpretazioni della storia e dell’uomo non possono determinare né modificare la nostra vita, perché non hanno saputo riconoscere l’uomo in quello che è il suo essere. L’essere è indisponibile, e proprio in ciò rimanda a Dio, quale origine di un amore che si elargisce illimitatamente senza mai pretendere una contropartita: «Non a prezzo di argento o di oro, ma con il sangue prezioso di Cristo, l’agnello senza difetti e senza macchia» (1 Pietro, 1, 18) siamo stati riscattati.

Ma il salvatore e redentore non farà la sua apparizione neppure sulle pagine dei supplementi culturali dei quotidiani e del mero consumismo, con tutta la loro superficialità. Tutti i tentativi di autoredenzione gratuita dell’uomo sono affondati in un abisso di crimine e violenza, vuoto spirituale e tedio mortale. Il rifiuto di un Dio che agisce nella storia e oggi dona agli uomini la sua rivelazione sfocia inevitabilmente nella disperazione di dover rimanere irredenti.

Solo nella Kènosis del Figlio di Dio (Filippesi, 2, 5-11) la volontà di salvezza si manifesta e diventa realtà per chi si affida con fede e amore alla persona del Figlio inviato dal Padre e divenuto uomo. Ad affrontare l’apparentemente invincibile «Golia del relativismo», intellettualmente e politicamente agguerrito e potenziato a livello mediatico, si fa avanti Davide, il pastore del popolo di Dio, senza armi ma pieno di una imperturbabile fiducia in Dio «nel nome del Signore» (1 Samuele, 17, 45). Il linguaggio e le argomentazioni di Benedetto XVI hanno un tono semplice e dimesso, come quello di Paolo. Non si tratta di prodursi in discorsi brillanti, né di abbandonarsi al piacere intellettuale della riflessione, bensì di diffondere l’annuncio di Dio. Il nostro rispetto nei confronti di un’umanità titubante, scettica, agnostica, disillusa, è improntato all’amore con cui Gesù guardò il giovane che gli chiedeva che cosa dovesse fare per ottenere la vita eterna (cfr. Matteo, 19, 16 par). E Paolo suggerisce ai testimoni e predicatori del Vangelo il metodo per la loro missione: «La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1 Corinzi, 2, 4 seg).

Si è soliti catalogare l’atteggiamento dei giovani, ma anche degli intellettuali nei Paesi cristiani d’Europa, nelle categorie di problema e di crisi. E in linea di massima si tratta di una valutazione esatta. Ciò nonostante, continua a verificarsi il miracolo di giovani che escono incolumi dall’onnipotente mainstreaming dell’idolatria anticristiana e, perfettamente lucidi di mente e con cuore pieno d’amore, domandano: «Mostraci Gesù!».

E anche a tutti noi capita di chiederci che cosa pensare del Figlio dell’uomo. «Tu sei Cristo, il figlio del Dio vivente», è la professione di Pietro (Matteo, 16, 16). E in lui, non solo si trasferisce alla Chiesa la missione dell’annuncio evangelico, ma si assicura che fino alla fine dei tempi essa resisterà saldamente a tutti i pressanti attacchi delle Porte degli Inferi. Ringraziamo stasera il Santo Padre per il suo libro. È una testimonianza data a Gesù, l’autore e perfezionatore della fede (Ebrei, 12, 2), che saluteremo nuovamente con giubilo nella prossima Pasqua.

[L’OSSERVATORE ROMANO – Edizione quotidiana – 25 marzo 2011]

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ZENIT Staff

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