India: dove la carità porta a migliaia di conversioni

Intervista al Vescovo di Miao, mons. Palliparampil

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MIAO (India), lunedì, 21 marzo 2011 (ZENIT.org).- Quando George Palliparampil, oggi Vescovo di Miao, ha iniziato il suo ministero, nella parte nord-orientale dell’India, il suo lavoro missionario era illegale e ha dovuto subire interrogatori da parte della polizia.

Nonostante i perduranti ostacoli, la terra missionaria di monsignor Palliparampil è il luogo in cui la Chiesa cattolica è cresciuta di più negli ultimi 30 anni, con più di 10.000 battesimi di adulti ogni anno, nonostante il divieto alle conversioni. Oggi, più del 40% dei circa 900.000 abitanti di Arunachal Pradesh è cattolico e il loro numero è in rapida crescita.

Il Vescovo cinquantaseienne ha parlato con il programma televisivo “Where God Weeps”, realizzato da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre.

Eccellenza, stiamo parlando della parte nord-orientale dell’India, un luogo molto montagnoso, abitato da tribù che fino a 60 anni fa erano cacciatori di teste di cultura pagana. Quante tribù vivono oggi in questa zona?

Monsignor Palliparampil: Esistono 26 tribù principali, divisibili in forse più di 120 sottotribù, ciascuna delle quali ha il proprio dialetto e la propria specifica cultura.

Queste tribù erano pagane?

Monsignor Palliparampil: Vorrei chiarire che la parola pagana è intesa nel senso che era gente che non aveva alcuna religione organizzata. Adoravano le potenze della natura. Sarebbe più corretto chiamarli “animisti”. Tutto era ricondotto agli spiriti: sia quelli buoni, che quelli cattivi. Se avveniva qualcosa di buono era dovuto alla presenza di spiriti buoni. Se avveniva qualcosa di cattivo era a causa degli spiriti cattivi, i quali dovevano essere propiziati. Dovevano essere compiuti sacrifici propiziatori per placare gli spiriti maligni.

Esiste il concetto di un Dio?

Monsignor Palliparampil: Sì, per esempio i Tani credono in un comune antenato. Ho compiuto uno studio sulla loro cultura, che è risultata molto simile a ciò che si legge nel libro della Genesi. Credono in un Dio. Il sole e la luna sono i due occhi attraverso cui Dio ci guarda. Abotani, il primo padre, aveva due figli come Caino e Abele e così la storia prosegue.

Quindi, quando è arrivato il Cristianesimo, ha trovato un contesto di apertura?

Monsignor Palliparampil: C’era apertura e c’è ancora. Il fatto è che questa gente trova una realizzazione in qualcosa che parzialmente gli era già proprio. I gruppi Tani credono di essere parte di una religione mondiale.

D’altra parte, la gente Tangsa vi trova un completamento delle proprie tradizioni. Poi abbiamo la famosa croce Mishmi. Alcuni gruppi Mishimi usano tatuarsi sulla pelle una croce, ma nessuno conosce l’origine di questo tatuaggio.

L’accettazione del Cristianesimo, in questa zona è avvenuta con grandi difficoltà. Vi erano ostacoli imposti non solo dalla cultura pagana, ma anche dalle restrizioni varate dal Governo indiano, in base alle quali fino a poco tempo fa i cristiani non potevano esercitare il ministero nella zona di Arunachal Pradesh. Quando è riuscito ad entrare per la prima volta in questa zona?

Monsignor Palliparampil: La mia prima visita è stata a un villaggio chiamato Pappu nala, per poter celebrare il Natale insieme a circa 400 persone. Ma come abbiamo raggiunto la zona, l’abbiamo trovata circondata dalla polizia e così siamo andati via. Sulla strada siamo poi stati prelevati e detenuti fino all’una e trenta del mattino. Ci hanno interrogato, ma anziché spaventarci – almeno per quanto mi riguarda – ci hanno convinto della necessità di fare qualcosa in quei luoghi, poiché la gente era affamata di fede e dei servizi della Chiesa, cose che finora non avevano potuto avere.

I politici non volevano far entrare i cristiani, non volevano che i cristiani evangelizzassero, al punto da arrestarli e deportarli. Ma qual è stata la reazione della gente?

Monsignor Palliparampil: Vogliono qualcuno che li ami. Questa è la mia esperienza. Ho trovato un’accoglienza totale. Per rendere l’idea di quanto sto dicendo, quando la gente del villaggio di Pappu nala è venuta a sapere che eravamo stati messi in prigione, 300 di loro si sono piazzati davanti al commissariato di polizia con pugnali, spade e torce, circondandolo e chiedendo il nostro rilascio. Verso le 23,30 l’agente di polizia ci ha chiesto: “Per favore fate andare via queste persone. Resterete qui la notte e vi porteremo ai vostri alloggi domani”. Io ho insistito: “No, non li abbiamo chiamati noi. E il capo del villaggio ha aggiunto: ‘Noi non ce ne andremo’. Finalmente verso mezzanotte e mezzo hanno preso un camion dell’esercito per riportarci ad Assam, ma la gente insisteva dicendo: “Noi non ce ne andremo perché non ci fidiamo del Governo”. Ci hanno quindi scortato, stipandosi il più possibile nel camion, fino alla nostra missione e solo allora sono tornati indietro. Questa è la reazione della gente. Sono stato lì tutti questi anni. Prima facevo avanti e indietro e poi, a partire dal 1992, ho potuto stabilirmi e direi che sono diventato uno di loro.

Effettivamente ora il Governo percepisce sempre meglio come la Chiesa tuteli la cultura locale. Come state cercando di promuovere la cultura locale e che risultati state ottenendo, nonostante la globalizzazione e la secolarizzazione?

Monsignor Palliparampil: Questa è effettivamente la prima cosa da tenere a mente: l’errata comprensione che alcune persone hanno della cultura. Alcuni pensano che la cultura sia qualcosa di molto statico: un modo tradizionale di vestirsi, abitare nelle capanne. Ma questa non è la cultura. La cultura è ciò che compone l’uomo; è ciò che determina la sua identità, il suo schema mentale, il suo sistema di valori. Diventare cristiani o vivere da cristiani, nella moderna società globalizzata, per le persone appartenenti alle tribù non significa essere meno tribali.

Soltanto nella sua diocesi ci sono 70.000 cattolici ed è un numero in rapido aumento. Qual è stato secondo lei il più efficace strumento di evangelizzazione, che ha spronato la diffusione della fede nell’Arunachal Pradesh?

Monsignor Palliparampil: Credo che il maggiore successo – lo definirei proprio così – sta nel convincimento della gente di poter trovare nella Chiesa qualcuno che cammini con loro. Non qualcuno che viene per dargli dei programmi o progetti dicendo: “Fate così e crescerete”, o “vi diamo finanziamenti perché ne disponiate come vi pare, o ancora “pregate così e sarete salvati” … no. Ciò che hanno visto è qualcuno che si è lasciato coinvolgere in ogni aspetto della loro vita e loro l’hanno accolto.

Ricordo le parole di un agente della polizia che ci ha detenuto nel 1980. Ha detto chiaramente: “Non vi sono villaggi in cui questi missionari non siano andati. Hanno dormito nelle loro case tribali. Mangiano con i tribali e questi possono entrare nei loro alloggi in qualsiasi momento. I loro figli vanno nelle loro scuole in tutta l’India e gli ammalati li portano per essere curati, e questo non solo negli ospedali della parte nord-orientale, ma fino a Chennai, Apollo e Velur, e non per fini di conversione, ma perché queste persone guariscano, per fini puramente umanitari. Quando arrivano queste persone [i missionari cristiani], i tribali – devo ammettere – vogliono solo far parte del Cristianesimo”. E questo è ciò che veramente sta avvenendo. Non è una sorta di conversione imposta come alcune persone tentato di far passare. È pura accoglienza.

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Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per “Where God Weeps”, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.

Where God Weeps: www.WhereGodWeeps.org

Aiuto alla Chiesa che soffre: www.acn-intl.org

L’intervista integrale da cui è stato adattato questo testo: www.wheregodweeps.org/video-audio/interview/arunachal-pradesh-head-hunters-to-christians

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ZENIT Staff

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