Indonesia: l'islam moderato nel mirino degli integralisti

di Paul De Maeyer

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

ROMA, venerdì, 18 marzo 2011 (ZENIT.org).- Lo spettro del terrorismo islamico torna ad agitare l’Indonesia. Le forze di sicurezza hanno intercettato nei giorni scorsi quattro pacchi bomba destinati ad altrettante figure di spicco della società indonesiana. Solo uno dei quattro plichi è esploso, quando martedì 15 marzo alcuni poliziotti hanno cercato di disinnescare l’ordigno. Nello scoppio, un ufficiale di polizia ha perso una mano.

L’ultima bomba è stata disattivata giovedì 17 marzo dagli artificieri del reparto di intervento speciale “Gegana” della polizia indonesiana nelle vicinanze della casa e dello studio di registrazione del musicista Ahmad Dhani, a Pondok Indah, un quartiere suburbano della capitale Giacarta. L’ordigno inviato al produttore era nascosto all’interno di un libro intitolato “Yahudi Militan”, ossia “L’ebreo militante”. Come rivela l’ (17 marzo), il musicista, che ha un nonno ebreo, è noto per essere uno strenuo difensore della libertà di religione nell’arcipelago.

Eloquente è anche la scelta dei destinatari degli altri tre libri-bomba spediti il 15 marzo. Uno di loro è il generale Gories Mere, ex capo del Densus 88 (i servizi antiterrorismo indonesiani) ed attuale responsabile dell’agenzia antidroga di Giacarta. Gli altri due sono Yapto Soerjosumarsono, capo del Pancasila Youth Movement, e Ulil Abshar Abdhalla, presidente e cofondatore del Jaringan Islam Liberal (JIL o Liberal Islam Network), entrambi noti per il loro impegno a favore di una società aperta e tollerante in Indonesia.

Il Pancasila Youth Movement mira a diffondere tra le giovani generazioni il pensiero del cosiddetto “Pancasila”, cioè i cinque principi sui quali sono fondati lo Stato indonesiano post-coloniale e il Partito Democratico (Partai Demokrat), di cui fanno parte il presidente Susilo Bambang Yudhoyono (noto anche semplicemente con la sigla SBY) e anche Ulil. L’ideologia del Pancasila promuove ad esempio l’unità, la giustizia sociale e la tolleranza religiosa fra i vari componenti o strati della società indonesiana.

Il Liberal Islam Network, che unisce vari gruppi moderati, si batte – come si legge nella sua pagina web – per “la maggiore diffusione possibile” di “una lettura liberale” dell’islam in Indonesia. La “missione” del JIL è creare “spazi aperti” per il dialogo con le altre comunità religiose (inclusa la setta musulmana degli ahmadiyya o Ahmadi) e “promuovere la creazione di una struttura sociale e politica giusta”.

Secondo gli esperti indonesiani, la tecnica di nascondere gli esplosivi nel libri – un “modus operandi” usato d’altronde nel novembre scorso da un gruppo terroristico greco – indica un probabile legame con la rete terroristica della Jemaah Islamiyah (JI), vicina ad Al Qaeda, che in una serie di attentati nell’anno 2006 a Poso, nel Sulawesi Centrale, fece ricorso alla stessa tattica.

Secondo Taufik Andrie, direttore di ricerca dell’Institute for International Peace Building, “ci sono circa 20 persone che possono fabbricare trappole esplosive come questa”. “Durante il conflitto [a Poso], avevano centinaia di studenti. Possono essere ritornati a casa ed aver insegnato queste tecniche”, ha dichiarato (The Jakarta Globe, 18 marzo). Della stessa opinione è l’attuale capo del dipartimento antiterrorismo, Ansyaad Mbai. “Questa è esattamente la stessa bomba che è stata usata nel 2006 a Poso”, così ha detto all’emittente radiofonica Elshinta (AAP, 16 marzo).

Da parte sua, il capo spirituale della JI, Abu Bakar Ba’asyir, il cui movimento mira a riunire in un unico Stato islamico o califfato tutte le regioni a maggioranza islamica del sudest asiatico (incluso il sud delle Filippine e della Thailandia), respinge qualsiasi coinvolgimento. Secondo il chierico, attualmente sotto processo a Giacarta, i libri-bomba sono stati “fabbricati” ad arte per tirarlo in ballo (The Jakarta Post, 17 marzo).

Tutti concordano che i pacchi bomba inviati ad esponenti moderati costituiscono un segnale preoccupante. Il titolo del “libro” (l’unico che è esploso) mandato a Ulil lascia del resto pochi dubbi sulle vere motivazioni degli attentatori. “Devono essere uccisi per i loro peccati contro l’islam e i musulmani”, così dice il titolo tradotto dall’indonesiano, parole che assolutamente non vanno sottovalutate. Come ricorda il Jakarta Post (17 marzo), già nel 2003 estremisti islamici dichiararono il sangue di Ulil “halal”, indicando che poteva essere ucciso proprio in questo modo.

“Questa non è più solo una minaccia contro il Liberal Islam Network. Questa è una minaccia contro la nostra società pluralista”. Così ha commentato l’accaduto un altro cofondatore del JIL, Luthfi Assyaukanie (The Jakarta Post, 17 marzo). La campagna è stata condannata anche da Azyumardi Azra, della Syarif Hidayatullah State Islamic University (la prima università islamica dell’Indonesia). “Le minacce di bombe non fermeranno lo sviluppo del pensiero islamico”, ha dichiarato a sua volta lo studioso. A difendere la missione dei liberali è stato anche un altro esponente moderato, Mohamad Guntur Romli, ex membro del JIL. “Noi difendiamo i diritti delle minoranze, inclusi gli ahmadiyya. E condanniamo solo un gruppo: coloro che commettono violenze”.

Mentre alcuni sostengono che la campagna terroristica sia “politicamente motivata”, fra cui lo stesso Ulil e anche il direttore dell’ONG Imparsial, Poengky Indarti (The Jakarta Post, 18 marzo), va senz’altro letta sullo sfondo della crescente intolleranza religiosa nel più popoloso Paese musulmano al mondo. Mentre l’8 febbraio scorso una folla inferocita di musulmani ha distrutto a Temanggung (nella provincia di Giava Centrale) vari obiettivi cristiani, il principale bersaglio della violenza settaria è oggi la minoranza musulmana degli ahmadiyya, considerati “apostati” ed “eretici” (per gli Ahmadi, Maometto non è l’ultimo profeta). Il 6 febbraio scorso, circa 1.500 persone armate di spranghe e di machete hanno preso d’assalto la casa di un capo del gruppo nel villaggio di Cikeusik (nella provincia di Banten, estremo ovest di Giava), uccidendo almeno tre persone (ZENIT, 8 febbraio).

Nelle ultime settimane, varie regioni indonesiane hanno messo al bando gli ahmadiyya, ad esempio Samarinda (provincia di Borneo Orientale) e Bogor (provincia di Giava Occidentale)(AsiaNews, 5 marzo). Già nel 1980 e poi nuovamente nel 2008, il Consiglio Indonesiano degli Ulema (MUI) ha emesso una “fatwa” nei confronti della minoranza e persino esponenti ritenuti moderati come Hajj Hasyim Muzadi hanno invocato recentemente la “tolleranza zero” verso di loro. “Se sono riluttanti a cambiare la loro dottrina, meglio che siano espulsi dall’islam e dichiarati una nuova setta che nulla ha a che fare con l’islam”, ha detto (AsiaNews, 2 marzo).

L’Indonesia del resto non è l’unico paese musulmano al mondo dove le voci moderate rischiano la vita. Militanti del gruppo fondamentalista Boko Haram (significa “l’educazione occidentale è illecita [haram]”) hanno ucciso domenica 13 marzo nel capoluogo dello Stato di Borno (Nigeria nordorientale), Maiduguri (o Yerwa), l’imam Ibrahim Ahmed Abdullahi. In numerose occasioni, il chierico islamico aveva denunciato l’estremismo e la violenza settaria nel suo Paese. Come ricorda il Washington Post (13 marzo), nel 2009 Abdullahi aveva fatto appello alle autorità affinché ponessero fine all’attività del gruppo, noto come i “taleban di Nigeria”. Secondo l’International Crisis Group (ICG, con sede a Bruxelles), scontri di carattere etnico-religioso hanno provocato dal 1999 al 2009 più di 14.000 vittime nel più popoloso Paese africano.

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione