I migranti cattolici, “portatori di speranza nel mondo”

Mons. Vegliò esorta le associazioni cattoliche a mettersi al loro servizio

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di Roberta Sciamplicotti

ROMA, venerdì, 18 marzo 2011 (ZENIT.org).- I migranti cattolici possono essere autentici “portatori di speranza” nel mondo di oggi, e per questo motivo le associazioni ecclesiali devono cercare di mettersi il più possibile al loro servizio per aiutarli a far fronte alle sfide che devono inevitabilmente affrontare.

E’ il messaggio che il Presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, l’Arcivescovo Antonio Maria Vegliò, ha lanciato questo venerdì pomeriggio ad Amman (Giordania) durante l’Incontro con le Organizzazioni Cattoliche.

La visita pastorale in Giordania del presule è dedicata ai problemi delle migrazioni, e prevede incontri con rappresentanti delle autorità civili e religiose, ambasciatori e alcune Organizzazioni Non Governative impegnate nell’assistenza a migranti e rifugiati, come il Jesuit Refugee Service (JRS) e la Caritas.

“Accompagnare i lavoratori migranti e le persone che sono costrette a spostarsi e non vivono nella propria patria è molto impegnativo”, ha riconosciuto monsignor Vegliò. “Richiede di essere sensibili e attenti alla loro situazione, e di capire come i loro bisogni cambino nel corso del tempo”.

In questo panorama, le associazioni cattoliche “possono essere uno strumento prezioso per dare ai migranti non solo sostegno materiale e spirituale per far fronte alle loro necessità, ma anche l’opportunità di condividere e donare”, ha proseguito.

“Parte della missione delle associazioni cattoliche tra i migranti cattolici è camminare con loro perché possano sentirsi parte della Chiesa e diventarne membri maturi. La Parola di Dio e i sacramenti li aiuteranno ad acquisire la forza per vivere pienamente la loro vocazione cristiana”.

Risorse preziose

“Se adeguatamente preparati e accompagnati, i migranti cattolici possono essere una luce nel buio, portatori di speranza nel mondo, una testimonianza vivente e fedele in luoghi in cui il cristianesimo è sconosciuto a molti”, ha sottolineato monsignor Vegliò.

“Possono essere veri ed efficaci agenti di evangelizzazione, più attraverso un’autentica vita cristiana che a parole”.

Le associazioni cattoliche, dal canto loro, “possono essere strumenti appropriati per aiutare i migranti ad accedere ai servizi che potrebbero aiutarli a difendere i propri diritti”, aiutandoli anche a prepararsi “al dialogo, soprattutto al ‘dialogo della vita’”.

“La presenza pastorale significa benvenuto, rispetto, protezione, promozione e amore autentico di ogni persona nelle sue espressioni religiose e culturali. E’ un dono e una sfida. La dedizione a questa vocazione, e l’impegno nei confronti di coloro che sono costretti a trasferirsi, può contribuire a un mondo più vivibile e umano”.

Giordania

Il presule si quindi è riferito alla situazione specifica della Giordania, osservando che anche se il Paese ha aderito a varie convenzioni internazionali sui diritti umani applicabili anche ai migranti internazionali, spesso i lavoratori immigrati “non conoscono i loro diritti di base, men che meno quelli relativi alla legge nazionale e agli standard internazionali”.

Nel Paese, ha continuato, ci sono anche circa 500.000 rifugiati provenienti dall’Iraq, “considerati visitatori temporanei, che non hanno uno status legale chiaro” e affrontano spesso difficoltà per rinnovare il visto.

Ciò li porta a vivere non di rado “in situazioni economiche precarie”, che fanno aumentare rischi come il lavoro minorile o la prostituzione e “la prospettiva di essere costretti dalle circostanze a intraprendere un ritorno ‘volontario’ in Iraq”.

“Gli uomini adulti che non possono lavorare e provvedere alle proprie famiglie soffrono di depressione, ansia e malattie croniche”, ha indicato, sottolineando che “sarebbe un miglioramento se si potesse stabilire una cornice legale temporanea per la difesa dei rifugiati di modo che possano lavorare senza paura di essere arrestati o costretti a rimpatriare”.

“E’ relativamente facile guardare la situazione dall’esterno”, ha riconosciuto monsignor Vegliò, ma “è del tutto diverso quando si deve rispondere a gente che ci siede davanti, guardandola negli occhi e dandole notizie negative, o comunicandole che ci sono poche possibilità di soluzione per i suoi problemi”.

E’ tutt’altra cosa “quando condividono con voi come i loro bambini soffrono ancora per gli atti di violenza e vivono nella paura svegliandosi ogni notte, come ci si sente a vivere per anni senza speranza di una vita degna, cosa si prova ad essere disumanizzati e quanto faccia male non essere considerati un essere umano”, ha detto ai membri delle organizzazioni cattoliche.

Azione ecclesiale

In questa situazione, la Chiesa e le sue organizzazioni devono “collaborare e sviluppare strategie e azioni combinate”.

Spesso, però, ha riconosciuto il presule, le organizzazioni caritative cattoliche “sono diventate dipendenti da risorse non cattoliche per il proprio finanziamento”.

“A volte c’è anche una competizione tra loro per trovare fondi”, ha indicato, sottolineando l’esistenza del “pericolo che un’organizzazione realizzi da dove vengono i fondi e ascolti solo quelle voci, così che i donatori stabiliscono anche le sue politiche”.

In questo caso, ha sottolineato, c’è il rischio che un’organizzazione sia “guidata dal donatore” anziché “guidata dalla missione”, il che “può mettere in discussione la loro identità”.

La questione primaria, ha concluso monsignor Vegliò, “è come sono espressi la solidarietà, l’ospitalità e l’impegno pastorale della Chiesa” nei confronti dei lavoratori migranti.

“Bisogna dunque compiere dei passi affinché la Chiesa locale possa affrontare questa sfida d’amore”.

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ZENIT Staff

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