Giovanni Paolo II, il Papa che parlava alla gente

Un libro ripercorre la vita “mediatica” di Wojtyla

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di Mariaelena Finessi

ROMA, venerdì, 18 marzo (ZENIT.org).- Figura amata, anche dai non cattolici, Giovanni Paolo II è forse il Pontefice più “studiato”, “analizzato” e sul quale si è scritto il più grosso numero di libri. Quello proposto da Sabina Caligiani, dal titolo “Giovanni Paolo II. Il Papa che parlava alla gente” (Paoline Edizioni), è uno di questi.

Nata a Perugia nel 1946, giornalista con in tasca una laurea in giurisprudenza e un diploma in Scienze Religiose, Caligiani ha deciso di annotare queste pagine «perché di Giovanni Paolo II – dice – non ci si può dimenticare». «È come quando muore una persona cara, un affetto familiare, e tu vuoi che sia ancora presente. Parlandone, richiamando alla memoria le sue parole, le sue azioni, è come se fosse ancora con noi».

Un giudizio, il suo, mosso da sentimenti di riconoscenza per il Papa che le ha «cambiato la vita». Pur tuttavia, il testo è meticoloso nel raccontare le ragioni oggettive che hanno fatto di Wojtyla un personaggio tanto benvoluto ma, soprattutto, così mediatico. Scritto inizialmente per una tesi universitaria, il libro è diviso in due parti: nella prima sono riportati stralci di discorsi del Pontefice polacco, punti cardini della sua evangelizzazione. Nella seconda, più specifica e che di fatto caratterizza il libro, c’è il rapporto tra Giovanni Paolo II e la comunicazione.

Uscito nel 2010, Caligiani torna a parlare del suo lavoro al pubblico dei lettori, in vista della beatificazione di Wojtyla il prossimo primo maggio. Ospitata a Roma presso la Libreria Internazionale Paolo VI, al centro del dibattito pone la figura di Giovanni Paolo II come grande comunicatore, appunto. «Di colui che ha saputo introdurre un modo nuovo e rivoluzionario di comunicare» tanto che la sua proverbiale esortazione “Non abbiate paura”, rivolta è risuonata a schiudere orizzonti nuovi per fissarsi in modo indelebile, quasi fosse il titolo di un film avvincente, nei cuori di quanti lo hanno seguito.

L’autrice, ripercorrendo il pontificato di Karol Wojtyla, ne evidenzia così i tratti caratteristici, specie là dove l’attenzione di Giovanni Paolo II è per «il recupero della persona quale soggetto attivo della propria esistenza». E che la difesa della dignità umana, anche attraverso i media, sia stata una prerogativa di questo Papa è un fatto storico.

Portavoce della cristianità attraverso i mezzi di comunicazione, Giovanni Paolo II «è anche colui che affronta in modo radicale le questioni di fondo dell’informazione e del giornalismo moderno. È un messaggio forte, che conserva intatta la sua attualità». «I comunicatori – ebbe a dire infatti lo stesso Wojtyla – devono cercare di comunicare con la gente, devono imparare a conoscere i bisogni reali della gente, essere informati sulle loro lotte, devono saper presentare tutte le forme di comunicazione con quella sensibilità che la dignità dell’uomo esige».

Con sorprendente naturalezza quel Papa ha percorso il proprio cammino di santità, e i media hanno rimbalzato la sua voce calda, i suoi gesti, il canto, il sorriso, la sua esigenza di toccare fisicamente le persone con gli abbracci e le carezze. «Guardava dritto negli occhi i suoi interlocutori, chiunque essi fossero», ne sapeva scrutare gli animi e non aveva timori a mostrarsi, nemmeno nella fase terminale della sua malattia. «Olfatti, vista, udito e tatto, ogni senso era da lui usato».

«Comunicatore efficace nel sapiente uso dei diversi linguaggi mass-mediali, Karol Wojtyla – spiega l’autrice – dimostrò di essere un fine conoscitore delle relazioni che si instaurano con la multimedialità e la comunicazione in rete, ben comprendendo che l’uso dei media non si risolveva nella semplice trasmissione del messaggio attraverso il medium, ma che bisognava usare degli approcci comunicativi simili al linguaggio religioso, secondo la teologia cristiana, partendo dal presupposto che l’evangelizzazione è un processo che agisce all’interno delle culture esistenti, attraverso i simboli che trovano espressione nella voce, nei gesti, nella scrittura, nelle arti».

Agli inizi del pontificato, le visite alle parrocchie romane, diventavano una maratona faticosa per il suo entourage, abituato agli incontri sobri di Papa Montini. Con Wojtyla bisognava correre, stargli al passo. Un giorno, in Vaticano, sorprese i presenti con una frase: il «corpo, e soltanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il divino». Ed è stato questo il punto a suo vantaggio.

«Il fatto che la teologia comprenda anche il corpo non deve meravigliare nè sorprendere nessuno che sia cosciente del mistero e della realtà dell’incarnazione. Per il fatto che il Verbo di Dio si è fatto carne – spiegò Wojtyla nell’udienza generale del 2 aprile 1980 -, il corpo è entrato, direi, attraverso la porta principale, nella teologia, cioè nella scienza che ha per oggetto la divinità».

E rivolgendosi ai giovani che sedevano sugli spalti dell’Arena di Verona, un’altra volta ricordò che l’uomo sa parlare col suo corpo e proprio per questo il corpo diventa un linguaggio. Una comunicazione cristologica, la sua, «che ricorda cioè – spiega Caligiani – quella di Cristo con le parabole».

Quando Giovanni Paolo II andava in volo, «i giornalisti vivevano la stessa curiosità degli apostoli che seguirono Gesù, le parabole che lo avevano reso accetto alla gente comune, non consapevole di essere la chiesa primitiva, ma – conclude l’autrice – mossa dalla curiosità, dal presentimento del vero».

Pensando al breve papato di Albino Luciani, durante una messa concelebrata in sua memoria l’allora cardinale Wojtyla pronunciò una preghiera, che oggi ci appare profetica per quello che a breve sarebbe avvenuto con la sua elezione al soglio pontificio: «Non possiamo non ritornare a quella prima chiamata, quella rivolta a Simone, al quale il nostro Signore diede il nome di “Pietro”. In particolare a quella chiamata definitiva, dopo la risurrezione, quando Cristo gli chiese per tre volte: “Mi ami?”. E Pietro per tre volte rispose: “Certo Signore, lo sai che ti amo”».

«E Cristo domandò: “Mi ami tu più di costoro?”. Era una richiesta così difficile – continua Wojtyla -, così esigente. La successione a Pietro, la chiamata al ministero pontificale contiene sempre al suo interno una chiamata all’amore che è in assoluto il più alto, un amore molto particolare. E sempre, quando Cristo dice a un uomo “Vieni, seguimi”, gli chiede quello che ha chiesto a Simone: “Mi ami più di costoro?”».

«Ma un cuore umano non può che tremare – ammette il cardinale polacco -. Un cuore umano deve tremare perché in quella domanda c’è anche una richiesta. Devi amare! Devi amare più degli altri (…)». Una chiamata dal duplice significato: «È un invito a servire – conclude Wojtyla – e un invito a morire».

E anche con l’ultimo atto della sua vita terrena, la morte, Giovanni Paolo II ha vergato una delle pagine più commoventi e mediaticamente seguite ovunque nel mondo. Centinaia di milioni di persone si sono commosse nel giorno dei suoi funerali quando il vangelo, posato sulla sua bara a Piazza San Pietro, è stato sfogliato dal vento.

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ZENIT Staff

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