di Mariaelena Finessi
ROMA, mercoledì, 16 marzo 2011 (ZENIT.org).- Surclassato dall’inglese, lingua della tecnologia, di internet e degli scambi commerciali, l’italiano conferma invece il suo ruolo di strumento veicolare della religione cattolica. A darne testimonianza, in maniera diffusa, è il volume “L’italiano nella Chiesa fra passato e presente”, presentato mercoledì a Roma in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia.
Il libro – voluto dall’Ambasciata italiana presso la Santa Sede, dall’Accademia della Crusca e dalla Società Dante Alighieri – raccoglie sei saggi, di altrettanti studiosi, incentrati sulla lingua della Chiesa e sui vari modi in cui essa ha messo mano alla sua comunicazione e all’opera di evangelizzazione.
Un articolato excursus che ripercorre la lingua ecclesiastica, dai tempi medievali ai catechismi fra ‘500 e ‘700, dall’acculturazione femminile delle congregazioni religiose nel XIX secolo alla politica linguistica della Santa Sede, fino allo sbarco della Chiesa sulla piattaforma Youtube.
Massimo Arcangeli, linguista e curatore del volume, sostiene che «il Cristianesimo dei primi secoli (e, in buona sostanza, anche quello dei secoli successivi) ricavi dalla “religione della parola”, tanto scritta quanto orale, i maggiori punti di forza per la sua azione predicatrice ed evangelizzatrice, tutta volta a trasmettere contenuti dottrinali e argomenti di fede nel modo più piano e trasparente possibile senza tuttavia rinunciare all’ausilio degli insegnamenti retorici».
In altri termini, la Chiesa ha avuto sempre un duplice ruolo, quello di sapersi rivolgere al popolo e, al tempo stesso, di tramandare il sapere scientifico. Ed è una regola costante nella predicazione quella di unire in un’unica formula la semplicità ai contenuti elevati. È il sermo humilis sottolineato dal filologo tedesco di origine ebraiche Erich Auerbach, «in cui la retorica si sottomette con semplicità ai fini pedagogici».
E che sia andata così, lo testimonia ad esempio una predica di Bernardino da Siena durante la quale – siamo nel XV secolo – viene ricordato un aneddoto divertente per far capire quanto sia importante la semplicità del linguaggio ai fini della comprensione altrui. Il sermone termina così: «Bisogna dire e predicare la dottrina di Cristo per modo che ognuno la intenda; e però dico “Declaratio sermonum tuorum“. Elli bisogna che ‘l nostro dire sia inteso. Sai come? Dirlo chiarozzo chiarozzo, acciò che chi ode, ne vada contento e illuminato, e none imbarbagliato».
«Un ammonimento, quello di parlare “chiarozzo chiarozzo”, che san Bernardino è il primo a seguire», spiega Arcangeli. Il segreto di un dettato chiaro sta nel suo ricorrere a continue ripetizioni, quindi ad una disadorna limitatezza del vocabolario, fatto di poche parole scelte da un ventaglio di possibilità anch’esso limitato. Anche la raffinatezza di sant’Agostino, che di retorica e grammatica è stato insegnante prima di abbracciare il Cristianesimo, non tradisce quella che era il suo punto di vista sulla questione, per cui è meglio patire i rimproveri dei grammatici anziché rischiare di non essere compresi dalla gente (“Melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi“).
Certo, l’intento non è quello di alfabetizzare tout court, quanto piuttosto di arginare l’eresia, figlia dell’ignoranza delle Sacre Scritture. Scrive la storica della lingua italiana, Rita Librandi: «Il Concilio di Trento, com’è noto, affidò al volgare soltanto la predicazione e la catechesi, escludendo, almeno parzialmente, l’universo dei credenti cattolici, ignari di latino, dalla lettura diretta delle sacre scritture. La scelta fu indotta, soprattutto nei decenni successivi al Concilio, dall’urgenza di contenere la riforma protestante e di assicurare tra i fedeli degli Stati cattolici una dottrina adeguatamente controllata e codificata». Il contributo alla costruzione di un’identità linguistica, cioè, è stato solo implicito.
L’indottrinamento è stato più volte connesso alla riduzione dell’analfabetismo nell’Europa moderna. Ma mentre nei paesi della riforma protestante i governi promossero istruzione di base e catechizzazione all’interno delle scuole pubbliche, in Italia la catechesi fu compito esclusivamente ecclesiastico, a partire dal Cinquecento. Le prime scuole nacquero a Milano, caratterizzate dall’insegnamento gratuito di scrittura e lettura che, così, attirarono specie i fanciulli più poveri.
Un modello di istruzione che, grazie a Carlo Borromeo, si diffuse nel nord e centro Italia. Poi, nel 1607, nacque l’Arciconfraternita della dottrina cristiana, «istituita – spiega Librandi – per diffondere capillarmente l’insegnamento catechetico e assicurare l’uniformità dei contenuti e dei metodi didattici».
Quanto agli strumenti adoperati, nel 1566 fu redatto in latino e indirizzato ai parroci il cosiddetto “Catechismo romano”. L’opera ebbe la prima traduzione in italiano quello stesso anno ma subito si tentarono semplificazioni, commissionate al cardinale gesuita Roberto Bellarmino. Non fu un caso: la Compagnia di Gesù, «braccio destro della riforma cattolica» – come sostiene Librandi – si era già adoperata nella redazione di diversi catechismi, spesso schematizzati in immagini.
Certo, non v’è lingua ufficiale nella Santa Sede, essendo la Chiesa per sua stessa natura universale, ma la preferenza per l’italiano può ravvisarsi nel “Regolamento Generale della Curia Romana” del 1999, che disciplina il funzionamento e la struttura della Curia Romana per l’appunto. All’articolo 14 sono indicati i requisiti necessari per poter essere assunti. Tra questi, la conoscenza del latino e dell’italiano sono espressamente menzionati. Ed è forse l’unico atto del genere.
La lingua italiana riveste dunque nella Santa Sede una “naturale” egemonia, che per certi aspetti si è addirittura rafforzata. Si pensi alle Università, ai collegi e seminari pontifici, in cui la didattica era da secoli impartita in latino mentre oggi i corsi si tengono in italiano. Senza contare che gli “stili” comunicativi degli ultimi due Pontefici, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, specie attraverso i discorsi ufficiali, hanno mondializzato la lingua di Dante.
Solo consultando il nascente “Dizionario degli italianismi” «è possibile provare a ipotizzare – spiegano Leonardo Rossi e Robert Wank – la consistenza numerica, il peso, la ramificazione dell’italianismo mediato dalla presenza della Chiesa cattolica nel mondo». Nel frattempo non sorprenderà nessuno sapere che parole come “pace”, “amore”, “fratellanza” e “solidarietà” sono termini presi a prestito dalla nostra dolce lingua, e ormai universali.