di Mariaelena Finessi


TOKYO, mercoledì, 16 marzo 2011 (ZENIT.org).- Terra di Shintoismo e Buddismo, in cui per secoli si è praticata la "Sakoku" - la politica di chiusura ermetica del Paese ad ogni influsso straniero, compreso quello religioso -, in Giappone i cattolici sono una sparuta minoranza. All'incirca lo 0,4 per cento della popolazione, pari a 500 mila anime su 128 milioni di abitanti.

Tenuta accesa la fede cattolica soprattutto grazie ai missionari, attualmente quelli del Pontificio Istituto Missioni Estere che lavorano nella terra del Sol Levante (Pime) sono una ventina. Testimoni di una tragedia immane, scatenatasi lo scorso 11 marzo da un sisma di magnitudo 8.9 - con epicentro nelle acque del Pacifico, al largo delle coste settentrionali dell'isola di Honshu - al quale ha fatto seguito uno tsunami devastante.

A terra, secondo la tv di Stato giapponese Nhk e la polizia di Miyagi, sono rimaste circa 10 mila vittime, altrettanti sarebbero i dispersi mentre gli sfollati, stando alle stime diffuse il 14 marzo, sarebbero circa 700 mila. Il problema, ora, oltre ai soccorsi da assicurare ai sopravvissuti - a corto di cibo e carburante - è dove mettere i morti. In Giappone, per i defunti, è pratica diffusa la cremazione. Ma le strutture, in una situazione di emergenza totale, sono carenti.

Padre Ferruccio Brambillasca, da 12 anni missionario nel Paese nipponico e da tre alla guida del Pime a Tokyo, racconta, intervistato da ZENIT, ciò che è accaduto quella mattina: «Erano da poco passate le 14.30 dell'11 marzo – dice -, quando improvvisamente vedo il mio ufficio muoversi. Ho capito che si trattava di un terremoto, ma non pensavo che durasse così a lungo e che fosse così intenso. Inizialmente ho pensato di rifugiarmi sotto il tavolo, poi sono corso in giardino, ma anche lì la terra tremava».

A servizio della Chiesa locale, i missionari del Pime lavorano nelle cinque diocesi nipponiche di Fukuoka, Tokyo, Hiroshima, Saitama e Yokohama come reggenti di diverse parrocchie. Lontani dal mare, non hanno vissuto sulla propria pelle la furia dello tsunami, forse unica parola giapponese utilizzata e introdotta in tutte le lingue del mondo, ma la paura è stata ugualmente grande.

Ora ci si rimbocca le maniche: «Non abbiamo bisogno diretto d'aiuto poiché non lavoriamo nelle zone colpite dal sisma – precisa il missionario, Superiore regionale -. Cerchiamo però di aiutare economicamente le zone e le chiese che invece hanno subito i danni del terremoto». Soprattutto, si attendono le decisioni dei vertici della Chiesa locale: «Vedremo quello che la Conferenza episcopale giapponese e la Conferenza dei religiosi che lavorano in Giappone ci indicheranno come possibili aiuti per le zone e le chiese provate dal sisma».

Intanto la Caritas nazionale ha cominciato a raccogliere fondi. «La Conferenza episcopale giapponese, e la Conferenza dei superiori degli istituti religiosi che lavorano in Giappone, stanno pensando a delle linee operative» per rendere concreti gli aiuti alla popolazione e alle chiese colpite dal disastro, «ad esempio attraverso l'invio di prodotti di primo consumo, l'invio di volontari e di sacerdoti per l'assistenza pastorale».

Non è stata risparmiata dal disastro nemmeno la centrale nucleare di Fukushima, dove sono oramai 4 i reattori guasti che generano continue esplosioni. Si fa sempre più concreto il rischio, esteso su vasta scala, delle radiazioni nucleari. Se il responsabile della Commissione nucleare Usa Gregory Jaczko ha detto questo mercoledì che «le dosi di radioattività potrebbero dimostrarsi letali in un breve periodo di tempo», il Commissario all'Energia dell'Unione Europea, Guenther Oettinger ha parlato addirittura di una possibile apocalisse.

Viene spontaneo, allora, frugare tra i pensieri che attraversano la mente di un uomo di fede in questi momenti. Padre Brambillasca ammette, sincero, di aver posto la stessa domanda ad altri suoi confratelli. La risposta, coraggiosa, è stata questa: «Lasciare la nostra gente per salvarsi è cosa impensabile per un missionario».

Padre Brambillasca, e la sua comunità, desiderano, questo sì, rivolgersi al resto del mondo con una richiesta che è sostegno e speranza: «Vorrei dire solo di pregare e di "essere un cuor solo" con il popolo giapponese. Un popolo che nella storia recente e passata ha sofferto molto e continua a soffrire con molta dignità e grandezza d'animo».