ROMA, sabato, 12 marzo 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il Messaggio per la Quaresima 2011 dell'Arcivescovo di Chieti-Vasto, mons. Bruno Forte.
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Nel messaggio per la Quaresima 2011, dedicato alla partecipazione del cristiano al mistero pasquale di Cristo, inaugurata con il battesimo, Benedetto XVI dice – a proposito del vangelo della guarigione del cieco nato - che Gesù “insieme alla vista, vuole aprire il nostro sguardo interiore, perché la nostra fede diventi sempre più profonda e possiamo riconoscere in Lui l’unico nostro Salvatore”. Questa crescita avviene in particolare mediante “l’ascolto attento di Dio”, che continua a parlare al nostro cuore con la Sua Parola di vita e così “alimenta il cammino di fede che abbiamo iniziato nel giorno del Battesimo”. Aprirsi alla fede e crescere in essa costituiscono, dunque, un dono e un impegno così importante che ho pensato di dedicarvi il messaggio per il cammino quaresimale di quest’anno, in comunione profonda con l’invito del Successore di Pietro, ponendomi alla scuola di Abramo, nostro padre nella fede (cf. Romani 4,12), insieme a Voi tutti che mi siete stati affidati.
1. Perché Abramo? Abramo è considerato il padre nella fede da ebrei, cristiani e musulmani. A Gerusalemme, sulla spianata del Tempio, sotto la cosiddetta Cupola della roccia nella moschea di Omar, c’è una roccia che secondo la tradizione è quella del monte Moria, dove Abramo andò per sacrificare Isacco, suo figlio unico, e dire così al Signore Dio di amarLo al di sopra di tutto, persino più dell’amatissimo figlio. È in questa disponibilità all’offerta incondizionata del suo bene più grande che Abramo introduce nella storia un atteggiamento nuovo: la fede. Perciò, nel libro del profeta Isaia, al capitolo 51, si dice di lui: “Guardate la rupe da cui siete stati tagliati, la gola del pozzo da cui siete stati estratti! Guardate Abramo, vostro padre…”. Con la sua fede Abramo è la roccia, su cui appoggiamo la nostra fede, è il pozzo da cui attingiamo l’acqua del nostro essere credenti. Perciò Paolo non esita a dire nella Lettera a Galati che “figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede” (3,7). La fede è il dono che ci genera alla vita nuova in Dio, insieme al nostro padre Abramo. Le tappe del suo cammino per arrivare ad affidarsi totalmente al Signore sono il modello cui guardare per vivere la nostra crescita nella fede e proporre itinerari di fede a chiunque voglia aprirsi al Mistero santo che salva.
2. Chi è Abramo? La vocazione di Abramo è narrata nel capitolo 12 del Libro della Genesi (vv. 1-9). I rabbini, maestri della fede nella tradizione ebraica, si sono chiesti chi fosse veramente Abramo quando venne chiamato da Dio e quale conoscenza avesse del Signore. Tre diverse risposte vengono date a questa domanda. Secondo alcune letture rabbiniche Abramo aveva conosciuto Dio all’età di un anno, quando cioè non si ha nessuno strumento concettuale e intellettuale per conoscere in maniera appropriata: si vuol dire così che la conoscenza di Dio fu per lui totalmente un dono. Una seconda tradizione afferma che Abramo aveva conosciuto Dio a tre anni, all’età in cui già si capisce qualcosa e si è stati abbastanza plasmati dall’ambiente familiare: la conoscenza di Dio in Abramo, dunque, sarebbe stata il frutto da una parte del dono di Dio, dall’altra di una certa sua attiva partecipazione e dell’educazione ricevuta dal suo ambiente. La terza tradizione è forse la più bella: Abramo aveva conosciuto Dio a quarantotto anni. Quarantotto sono gli anni della piena maturità della vita, la soglia prima del quarantanovesimo anno (nella simbolica biblica sette per sette è il compimento, la perfezione iniziata). Certo, questa può essere anche l’età del disincanto: quando si è giovani ci sono molti sogni, poi la vita porta spesso a fare l’esperienza della delusione, nello scontro con la realtà tante volte dura, pesante, forse proprio lì dove meno ce lo saremmo aspettato. Sarebbe in questo momento della vita, in cui può affacciarsi la tentazione di cedere all’amarezza del rimpianto, che Abramo scopre l’assoluto primato di Dio. Questa tradizione accentua da una parte il dono divino, dall’altra il fatto che ci si apre veramente al Signore quando si è conosciuto l’uomo, quando si è fatta esperienza del dolore del mondo: allora si capisce veramente il dono dall’alto, e Dio non è più per noi una consolazione umana o la proiezione dei nostri desideri. È la scelta di Dio nel tempo della maturità, nel segno della profondità degli affetti e dei dolori umani. È l’approdo di ogni vera iniziazione alla fede e al tempo stesso il punto di partenza di una crescita che avrà compimento solo nella visione beata del cielo.
3. Da dove viene Abramo? Abramo viene da una famiglia che serviva falsi dei, come testimonia il libro di Giosuè: “Nei tempi antichi i vostri padri, tra cui Terach, padre di Abramo e padre di Nacor, abitavano oltre il Fiume. Essi servivano altri dèi” (24,2). Dal punto di vista delle sue origini familiari, egli non ha nulla che lo predisponga a diventare l’eletto di Dio. La sua gente è idolatrica. La vicenda di Abramo ci fa capire che la fede non si trasmette in modo ereditario: si può arrivare alla fede da qualunque punto di partenza, ognuno pagando il proprio prezzo, vivendo il proprio amore, soffrendo la propria avventura. L’incontro con Dio è sempre frutto di grazia e di libertà! Esso, poi, può avvenire in ogni stagione della vita. Secondo il racconto di Genesi 12, la storia vera e propria della fede di Abramo comincia quando egli aveva 75 anni! Nessun presupposto è assolutamente necessario, se non l’onestà di mettersi in gioco con Dio. Abramo non è un eroe, ha anzi le paure che abbiamo tutti, in particolare quella della morte. Quando arriva in Egitto con sua moglie Sara, avanti negli anni eppure molto bella, inventa che Sara è sua sorella, perché così, se il faraone o qualche potente dell’Egitto avesse messo gli occhi su di lei, non lo avrebbe ucciso per liberarsi del concorrente scomodo (Genesi 12,10-20). Abramo, poi, desidera un figlio, che avrebbe potuto continuare a pronunciare il suo nome con amore. Per lui è questione di vita o di morte, perché non avere un figlio, nella mentalità del suo tempo, significava morire per sempre. A tal punto desidera un figlio, che si lascia convincere ad averlo dalla schiava Agar (Genesi 16, 1-6). Quando poi finalmente Sara partorirà Isacco, Abramo concentrerà su questi tutto il suo amore. Abramo, dunque, è un uomo di età avanzata, che viene da una famiglia idolatrica, pieno di paure, piuttosto passionale: tanto simile a noi, con le nostre fragilità umane, le nostre incertezze, i nostri dubbi, le nostre domande. Eppure, accetta di mettersi in gioco di fronte alla chiamata di Dio. Nell’aprirci e nell’educare alla fede non dobbiamo preoccuparci di meriti e capacità: Dio ama e chiama con assoluta gratuità, non escludendo nessuno!
4. La prima chiamata di Abramo. È a quest’uomo che arriva la chiamata da parte del Signore, che gli chiede di lasciare la sua terra e ogni sua sicurezza. Questo è certamente qualcosa che costa, ancora più quando si è avanti negli anni e si diventa più abitudinari, legati alle proprie certezze per quanto fallaci. Dio gli promette, però, qualcosa di molto bello: la pienezza della benedizione, una discendenza numerosa come le stelle del cielo, come la sabbia che è sulla riva del mare. A uno che non aveva figli una promessa del genere appare un sogno. La chiamata è troppo bella per non essere accolta. Abramo decide di obbedire alla voce di Dio, che gli promette esattamente quello che lui voleva: insegue, cioè, il suo sogno. La chiamata di Genesi 12 è la proiezione del desiderio di chi è chiamato. Se si desidera profondamente qualcosa e Dio ce la promette, può essere facile dire di sì alla volontà divina. Anche le rinunce più grandi, quando sono viste nell’ottica di vedere esaudito il desiderio del cuore, appaiono accettabili. Perciò Abramo parte e, ricco di Dio, sente di poter essere generoso con tutti, come per esempio con Lot, figlio di suo fratello, cui lascia la porzione di terra migliore (Genesi 13,9), o con gli abitanti di Sodoma, per cui intercede comportandosi da abile mercante nelle trattative con l’Altissimo (Genesi 18). Egli sa di aver ricevuto la promessa, e tutto il resto si commisura su questo.
5. Abramo e la seconda chiamata di Dio. Se tutto si fermasse qui, però, Abramo non sarebbe il nostro padre nella fede. Perché ci sia fede non basta l’entusiasmo di seguire Dio quando Lui ti promette le cose che vuoi. Occorre qualcosa d’altro, di diverso, qualcosa che cambi profondamente il tuo cuore, che lo segni per sempre e ti porti solo davanti a Dio solo a vivere l’offerta più difficile, il dolore più grande, l’amore più profondo. Questo è ciò che succede in Genesi 22 (1-18), la seconda chiamata di Abramo, che nella tradizione ebraica viene detta la ‘aqedah, il “legamento” di Isacco (che sarà legato come si lega l’animale da sacrificare). Davanti al comando di Dio Abramo tace. Il Dio che gli ha donato quanto desiderava, gli chiede ora di privarsi di Isacco. C’è da impazzire! Com’è possibile che Dio neghi le promesse di Dio? Che gli chieda di sacrificare l’unica cosa che per lui veramente conta nella vita, l’Isacco del suo cuore? La prova di Abramo è quella di credere in un Dio che sembra negare se stesso. È perciò commovente il dialogo fra Abramo e Isacco. Questi si rivolge a suo padre: “Padre mio”. Sentirsi chiamare così dal figlio amato tocca le fibre più profonde dell’anima di Abramo, che sa solo dire: “Eccomi, figlio mio!”. Riprende Isacco: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” Abramo risponde: “Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio”. Nel suo bellissimo commento a questo testo Søren Kierkegaard immagina qui che Abramo faccia una preghiera segreta: “Signore del cielo è meglio che egli mi creda un mostro, piuttosto che perda la fede in Te” (Timore e tremore). Abramo capisce che se dicesse al ragazzo che Dio lo vuole far sacrificare, Isacco non potrebbe più credere in Dio. Preferisce che il figlio pensi che lui sia un mostro, piuttosto che perda la fede in Dio. Davanti alla seconda chiamata si deve essere pronti a perdere veramente tutto!
6. Agonie della fede. Abramo ormai ama Dio fino al punto che è pronto non solo a sacrificargli l’amato del suo cuore, ma anche a essere giudicato un mostro dal figlio amato! Kierkegaard aggiunge: “Ciascuno diventa grande in rapporto alla sua attesa; uno diventa grande con l’attendere il possibile, un altro con l’attendere l’eterno, ma colui che attese l’impossibile, divenne più grande di tutti”. Abramo crede nell’impossibile possibilità di Dio, cioè che lo stesso Dio che ha dato e che ha tolto ha sempre una possibilità impossibile e di Lui bisogna fidarsi. Dio, dirà Gesù, può far nascere dei figli ad Abramo dalle pietre. Abramo si fida di Dio anche nel tempo del silenzio di Dio. Questa è la fede di Abramo: fidarsi di Dio quando Lui sembra toglierci tutto. Kierkegaard osserva: “Lasciò la sua intelligenza terrena e prese con sé la fede”. Abramo non ragiona più in termini di calcolo umano: si fida. Credere è imparare ad abbandonarsi perdutamente a Dio! Aggiunge Kierkegaard: “Dio è colui che esige amore assoluto. Abramo ama Isacco con tutta l’anima e quando Dio glielo domanda, lo ama se possibile ancora di più e solo così può farne il sacrificio”. Ami veramente Dio quando continui ad amarLo qualunque cosa Egli voglia per te. Sacrificare quello che uno non ama, è facile: offrire a Dio l’amore più grande, questo è difficile! Abramo può sacrificare Isacco solo perché lo ama infinitamente. A Dio non si offre lo scarto del cuore, ma l’amore più grande. Ognuno di noi ha un Isacco del suo cuore. Fede è capire qual è questo Isacco e metterlo sull’altare del sacrificio per amore di Colui, che solo è degno di quest’offerta. Fede è morire per nascere, lasciarsi far prigionieri dell’invisibile: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà” (Marco 8,34-35). In Genesi 22 Abramo muore ai suoi sogni, perché è pronto ad amare Dio più di tutte le consolazioni di Dio. È allora che l’Eterno può dirgli: “Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio” (Genesi 22,12).
7. Sulle orme di Abramo. Questa è la fede: credere nell’impossibile possibilità di Dio, fidarsi di Lui nonostante tutto, dargli tutto di sé. Così Abramo diventa il padre nostro nella fede, perché ha saputo credere contro ogni evidenza, sperare contro ogni speranza: egli rappresenta tutti noi, che rispondiamo al Signore, a volte caricando il sì del nostro desiderio, come avviene in Genesi 12, ma a cui avverrà prima o poi di essere chiamati – come in Genesi 22 – ad affidarci perdutamente a Dio. Nella lettera ai Romani (8,32) Paolo riprenderà la scena di Genesi 22, offrendo però una diversa lettura dei protagonisti: Abramo sarà Dio Padre e Isacco sarà Gesù; mentre l’Isacco mortale di Genesi 22 non muore, l’Isacco immortale di Romani 8,32 muore per amore nostro. Il sacrificio di Isacco è realizzato in pienezza da Gesù! Nella lotta della fede non siamo soli: Cristo è con noi. Perciò dobbiamo tenere “fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Ebrei 12,2). Ognuno può allora domandarsi: credo in Dio perché realizza i desideri del mio cuore o perché è Dio, il mio Dio, libero e sovrano su di me? Lo amo per le sue consolazioni o unicamente perché è Dio? Qual è l’Isacco del mio cuore? Quale è il bene più grande per me, ciò a cui più ho tenuto o tengo nella mia vita? Sono pronto a offrire a Dio l’Isacco del mio cuore? Accetto di vivere appoggiandomi sulla fedeltà di Dio? Sono disposto a mettermi alla scuola di testimoni credibili della fede, a cominciare dai santi? Cerco aiuto nella comunità dei credenti perché la mia fede generata dalla Parola di Dio, in essa proclamata, sia nutrita dalla grazia dei sacramenti e dalla comunione della carità fraterna?8. Chiediamo al Signore il dono della fede. Soltanto chi è pronto a dare a Dio il proprio Isacco è pronto a credere in Lui, e questo è un dono da chiedere pregando. “Credo; aiuta la mia incredulità!”, possiamo dire col padre del ragazzo sanato da Gesù (Marco 9,24). O, se ancora non conoscessimo il Signore, potremmo far nostra l’invocazione del giovane Charles de Foucauld nel tempo precedente la sua conversione: “Signore, se esisti, fa’ che Ti conosca”. Se, infine, abbiamo il dono della fede, possiamo chiedere di crescere in esso camminando verso una fede sempre più grande, più pura, più totalmente abbandonata in Dio, pregando con queste parole di santa Teresa d’Avila:“Se ti amo, o mio Tesoro, non è per il Cielo che mi hai promesso. Se temo di offenderti, non è per l’inferno di cui sono minacciato. Quel che mi attira a te, sei tu, tu solo: è vederti inchiodato sulla croce, col corpo straziato, in agonia di morte. E il tuo amore si è talmente impadronito del mio cuore che anche se il Paradiso non esistesse, ti amerei lo stesso; se non esistesse l’inferno ti temerei ugualmente. Tu nulla hai da promettermi, nulla da darmi per provocare il mio amore: quand’anche non sperassi quel che spero, ti amerei come ti amo”. Il dono che vorrei chiedere per me e per tutti noi per questa Quaresima è di riscoprire la grazia del nostro battesimo crescendo nella fede che essa ha acceso in noi, e perciò in una consegna sempre più piena e totale di noi stessi a Dio nella sequela di Gesù, Suo Figlio e nostro Redentore.