ROMA, giovedì, 10 marzo 2011 (ZENIT.org).- C’è un problema cui i cristiani non possono sottrarsi e a cui devono dare una risposta: l’organizzazione della vita su questa terra, che alla fine fa capo alla sintesi politica, è autonoma dalla religione oppure è insufficiente a fondare e a mantenere se stessa? Dalla risposta a questa domanda dipende il rapporto che si vuole instaurare tra la politica e la fede religiosa, tra il mondo con le sue logiche e il cristianesimo. Si può anche dire, con Sant’Agostino, che si tratta di stabilire il rapporto tra la “città di Dio” e la “città dell’uomo”.
Lungo la storia si è cercato di trovare diverse soluzioni per questo problema e il grande filosofo e storico Étienne Gilson aveva scritto nel 1952 un libro proprio per analizzare le principali di queste soluzioni. Questo libro è stato ristampato dall’editore Cantagalli di Siena con il titolo originario “Le metamorfosi della città di Dio”. Si sa che l’ago della bilancia può tendere più da un lato o dall’altro, ora a favore della città dell’uomo ora a favore della città di Dio. Lungo la storia è però stata anche proposta una soluzione con la pretesa di essere perfettamente equilibrata. Autore di questa proposta fu Dante Alighieri e Gilson presenta questa soluzione nel capitolo IV del suo libro. Può essere interessante, quindi, esaminare la proposta di Dante per poi vedere cosa ne pensa Gilson. E’ un esercizio utile anche per l’oggi, perché anche oggi molti cristiani ritengono che la politica e la religione siano due realtà autonome e indipendenti ognuna nel suo ambito. Ma è veramente così?
Secondo Dante il potere politico non riceve la propria esistenza da quello spirituale, ma solo una luce che lo aiuta spiritualmente nell’esercizio della sua autorità. La Chiesa è fondata su Cristo, il potere politico si fonda invece sul diritto. Il primo ha come scopo la salvezza dell’anima, il secondo ha come scopo la salute del corpo. Il piano temporale è così pienamente autonomo. Il potere spirituale può aiutarlo a raggiungere i suoi fini, ma non gli conferisce la sua autorità. C’è un piano naturale dell’esistenza universale degli uomini che basta a se stesso. E’ quindi anche pienamente laico: tutti gli uomini ne fanno parte in base alla loro natura umana, siano essi di una o dell’altra religione. La natura è autonoma dalla grazia, anche se è nel suo interesse mettere a profitto i benefici della grazia. Dante ha quindi colto per la prima volta la nozione di un piano politico autonomo e sufficiente nel suo ordine, dotato di una sua propria natura, di un fine ultimo suo proprio e di mezzi autonomi per raggiungerlo. Anche oggi, infatti, molti affermano che siamo tutti uomini prima di essere cristiani o di altre religioni. Con simili frasi si vuole intendere che il piano umano e naturale è esso stesso fonte di piena umanizzazione e che l’unione tra gli uomini non ha in sé bisogno della religione. C’è come una Chiesa temporale, che è il genere umano, autonomo nel suo ordine, e c’è poi una Chiesa religiosa guidata dal Papa e animata da Cristo.
A sostegno della sua tesi Dante portava soprattutto due argomenti. La prima è che l’impero, vale a dire l’organizzazione del piano politico senza la religione cristiana, c’era anche prima del cristianesimo. Egli si riferiva, naturalmente, soprattutto all’impero romano, il quale era tendenzialmente universale. Quindi – egli diceva – il piano politico è in grado di stare in piedi da solo. La seconda era che la ragione umana mediante la filosofia di Aristotele, ai suoi tempi pienamente assimilata nel mondo occidentale soprattutto tramite San Tommaso d’Aquino, dava l’impressione di essere pienamente in grado di raggiungere da sola tutte le sue proprie verità. Questo dava l’idea che la ragione fosse autonoma dalla fede e che fosse in grado di guidare con le sue forze l’agire politico dell’imperatore.
Solo che ambedue gli argomenti non reggevano veramente, come fa notare Gilson, da valente storico del pensiero occidentale quale egli era. Sant’Agostino, per esempio, nel De civitate Dei aveva criticato moltissimo le leggi e i costumi deteriori dell’impero romano, sostenendo che il crollo dell’impero era proprio dovuto alla immoralità dilagante. Questo stava a dimostrare che senza l’avvento del Cristianesimo, il quale costruendo dei “buoni cristiani” costruiva anche dei “buoni cittadini”, la ragione e la morale naturali non sarebbero riuscite a costruire la città terrena. Circa il secondo argomento: «siamo certi che il trionfo di Aristotele nel Medioevo sia stato puramente filosofico e razionale?». Grande domanda, questa. Senza che la fede cristiana purificasse gli errori presenti anche nella filosofia di Aristotele, sarebbe nata la grande filosofia medioevale? Come si vede si può dubitare che la ragione possa fare da sola.
Che dire allora della proposta di Dante? E’ vero che il piano politico è autonomo da quello religioso e che è in grado di raggiungere da solo i suoi fini ultimi? Per accettare questa impostazione bisogna accettare che l’uomo abbia due fini: un fine temporale e un fine soprannaturale. Dante dice proprio questo, ma dal punto di vista cristiana si tratta di un errore. Egli, non riconoscendo il fatto che l’uomo ha un’unica vocazione, «misconosceva il principio fondamentale, che ben lungi dal sopprimere l’autonomia di un qualsiasi ordine inferiore, la sua subordinazione gerarchica consegue l’effetto di fondarlo, di portarlo a perfezione, in breve, di garantirne l’integrità e di mantenerlo. La natura informata dalla grazia é più perfettamente natura. La ragione naturale illuminata dalla fede diventa più integralmente ragionevole. Accettando la giurisdizione spirituale e religiosa della Chiesa, l’ordine sociale e politico si fa più felice e più saggio sul piano temporale». Se, quindi, Dante aveva torto, non possiamo non porci, con Gilson, la domanda più intrigante che ci sia al giorno d’oggi, ma difficilmente eludibile da parte di chi voglia andare fino in fondo alle cose: «Può esservi una Chiesa senza che vi sia unità politica sulla terra; ma può esservi unità politica della terra senza che vi sia il riconoscimento, da parte del temporale, dell’autorità diretta dello spirituale, non soltanto in campo morale, ma anche in campo politico?».
Scriveva San Tommaso d’Aquino: «In materia spirituale conviene obbedire al papa, in materia temporale è meglio obbedire al principe, ma meglio ancora al papa, che occupa il vertice dei due ordini». Secondo Gilson questo vuol dire che «Lo spirituale non è subordinato al temporale. Il principe, che ha autorità sul temporale, non ne ha dunque alcuna sul campo spirituale; ma il temporale è subordinato allo spirituale. Il papa, che ha autorità sullo spirituale, ha dunque anche autorità sul temporale, nella misura stessa in cui questo dipende dallo spirituale. La formula è semplice ed è sufficiente applicarla per vedere come essa comporti un preciso significato. Il papa non è il sovrano politico, di nessun popolo della terra, ma ha autorità sovrana sul modo in cui tutti i popoli conducono la loro politica».
———-
*Stefano Fontana è direttore dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa (http://www.vanthuanobservatory.org/).