“La Chiesa cattolica è oggi la speranza di molti cubani”

Intervista a Miguel Galbán, ex prigioniero di coscienza

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di Nieves San Martín

SANT FELIU DE LLOBREGAT (Spagna), martedì, 8 marzo 2011 (ZENIT.org).- “La Chiesa cattolica è oggi la speranza di molti cubani”, secondo Miguel Galbán, ex prigioniero di coscienza cubano. Dopo cinque mesi di vita da ex prigioniero, trascorsi in un Paese come la Spagna, che sta attraversando una grave crisi economica, lotta ora contro la burocrazia cubana e spagnola per ottenere il riconoscimento dei suoi titoli e di quelli dei suoi familiari, e poter lavorare, prima che cessi l’aiuto della Croce Rossa e della Commissione spagnola per gli aiuti ai rifugiati.

Miguel Galbán Gutiérrez ha concesso questa intervista a ZENIT, in cui spiega come è riuscito a conservare la fede, il suo contesto familiare cattolico, e le difficoltà di chi non nasconde il proprio credo pur di cavarsela nella società dell’isola caraibica.

Ingegnere di professione e giornalista indipendente per vocazione, considerato come prigioniero di coscienza da Reporter senza frontiere e dall’Associazione stampa di Almería, Spagna, risiede a Sant Feliu de Llobregat, un paese relativamente vicino a Barcellona.

Insieme ai suoi familiari (in totale dieci) vive grazie all’aiuto della Croce Rossa e della Commissione spagnola per gli aiuti ai rifugiati (CEAR). Un aiuto che cesserà nell’arco di qualche mese.

Galbán continua a non trovare lavoro e a non ricevere dal Governo cubano i documento necessari a lavorare (ha ottenuto il titolo, ma non il piano di studi necessario per ottenere il riconoscimento in Spagna). Il mese scorso, ad Almería è stato insignito del premio Libertad de Expresión 2010.

Lei crede che Cuba abbia perso mezzo secolo della sua storia, o esiste qualcosa di buono nella rivoluzione cubana?

Miguel Galbán: A gennaio si sono compiuti 51 anni dal trionfo di una rivoluzione che aspirava a cambiare Cuba, perché puntava a costruire “una nazione più democratica, più prospera, più indipendente e più giusta”.

È evidente il fallimento di questo obiettivo. Il prezzo che hanno pagato i cubani in termini di perdita delle libertà fondamentali è immenso. Il governo decide ciò che si deve studiare, dove poter lavorare, addirittura se si può viaggiare all’estero. A Cuba non c’è libertà politica né di espressione. A Cuba non c’è giustizia sociale, mentre lo standard di vita della popolazione è diminuito nettamente. Cuba è oggi un Paese sempre più povero, dipendente dagli aiuti esterni e meno libero.

In 51 anni, quella che era la quarta economia dell’America latina è diventata una delle ultime della regione. Questa nazione, allora approdo di immigrati, oggi si è trasformata in una società con un potenziale emigratorio di più di un milione e mezzo di abitanti.

Con l’ascesa al potere di Raúl Castro sono stati differiti cambiamenti a un modello che è assurdo. Consolidato il suo potere, ha mostrato piccoli segnali di riforma, che tuttavia continuano a essere insufficienti.

Anzitutto servono modifiche legislative, per riconoscere le libertà fondamentali proprie di una società libera e democratica. È ineludibile che il popolo cubano possa esprimere liberamente le proprie idee senza bisogno che un presidente gli dica che può parlare senza temere rappresaglie, soprattutto dopo aver aspettato decenni per questo.

Questa è la realtà della situazione cubana. Ciò che lasceranno i fratelli Castro è un’eredità di sangue, ingiustizia e distruzione.

Nel suo curriculum afferma che la sua fede cristiana l’ha aiutata durante la prigionia. In che senso?

Miguel Galbán: All’inizio della prigionia non comprendevo la realtà in cui mi trovavo – molte richieste e sanzioni, condizioni di vita disumane e denigranti, isolamento, nessun contatto con i familiari per mesi – e che avrei sofferto a partire da quel momento.

Ho valutato la situazione in cui mi trovavo. La mia religione cristiana mi ha consentito di affrontare la realtà attraverso la fede e le preghiere quotidiane.

Ho iniziato a impiegare il tempo per allenarmi sia fisicamente che spiritualmente. Ho ripreso la mia attività giornalistica, ma in un contesto molto più ostile e pericoloso, dove ero più indifeso di fronte all’azione abusiva della polizia politica.

Nei più di sette anni e mezzo che mi hanno tenuto nelle carceri del regime cubane, sono stato in due prigioni: quella di Agüica, Matanzas, e quella di Guanajay, all’Avana. Mi hanno negato innumerevoli visite religiose. Le autorità politiche ricorrono alla privazione di questo diritto come pratica di tortura.

Ad Agüica, all’inizio, sono stato nove mesi, senza che mi venisse offerta alcuna assistenza. Dopo aver aiutato il cappellano, in diverse occasioni, non mi hanno permesso di vederlo. Le visite erano consentite con cadenza trimestrale. A Guanajay erano invece mensili, ma sono stato senza per cinque mesi. Dicevano ai secondini che era un’attività di rieducazione e non potevo andare se non avevo l’uniforme carceraria. Alla fine mi hanno permesso di andare, ma non alle Messe.

Cosa significa essere cristiano a Cuba?

Miguel Galbán: Essere cristiano nel mio Paese, come in ogni dittatura di stampo stalinista, è molto difficile; una difficoltà che anche i nostri figli e familiari subiscono, per inserirsi nella società. Il regime castrista, da che è arrivato al potere, non ha tutelato i credenti ed ha perseguitato senza sosta tutti coloro che considerava come un ostacolo al raggiungimento del suo obiettivo di inculcare alla popolazione la sua funesta ideologia politica.

Vivere da cristiano, mostrare che lo erano anche i tuoi genitori, o conservare un’immagine religiosa in casa propria, significava non poter accedere all’università o a un impiego degno e decoroso.

In questi momenti il Governo sottilmente afferma che i cristiani non sono oppressi, ma il comportamento riflette una realtà diversa: ancora oggi non hanno accesso a molti posti di lavoro e di studio.

È vero che i cattolici sono stati cittadini di serie B? Perché?

Miguel Galbán: Come ho già detto, i cristiani sono ancora accusati, attraverso una procedura meschina chiamata “idoneità” o “affidabilità”, che viene utilizzata quando si fa domanda per accedere a un lavoro, o a studi tecnici o universitari. In questo modo vengono negate le pari opportunità rispetto ai sostenitori della dittatura.

Nel mio Paese è consentito solo l’insegnamento statale. Attraverso le scuole, gli emissari del regime cercano di inculcare ai bambini, sin dal primo momento, un’educazione atea, idealizzando la figura del dittatore Fidel Castro e della rivoluzione cubana come “Il Paradiso”, come l’unico sistema umano di speranza e di opportunità che esista al mondo.

Questa formazione antireligiosa dei bambini, i quali hanno invece ricevuto sin dalla culla quella dei propri genitori credenti, provoca in essi un contrasto con il loro ambiente familiare. Questa è una delle principali finalità perseguite dal regime, quando ha vietato l’insegnamento religioso nelle scuole.

Come vede il futuro del movimento laicale della Chiesa a Cuba?

Miguel Galbán: Il futuro del movimento laicale lo osservo con grande entusiasmo. La Chiesa cattolica cubana, negli ultimi tempi, è diventata la speranza di molti connazionali. In quasi tutte le diocesi esistono progetti umani ed educativi, sono state create mense e servizi di lavanderia per gli anziani, asili nido e altri servizi imprescindibili per i più bisognosi.

Inoltre, con gli scarsi mezzi che ha a disposizione, la Chiesa riesce ad ottenere nuovi terreni, spazi ancora insufficienti, ma può scatenare nella società un progresso politico, sociale e giuridico che ha già iniziato a svilupparsi in seno allo stesso castrismo, con il riconoscimento del diritto all’esistenza della Chiesa cattolica e dell’idea che possa servire come interlocutore nell’Isola per offrire soluzioni
ad alcuni dei problemi della popolazione.

La cosa più significativa è la liberazione di alcuni dei prigionieri del “Gruppo dei 75”, la presenza tutte le domeniche delle Damas de Blanco nella chiesa della capitale dedicata a Santa Rita e la loro precedente sfilata sulla quinta strada.

Cosa vorrebbe dire ai suoi compagni che ancora soffrono in prigione?

Miguel Galbán: Ai miei compagni che coraggiosamente rimangono dentro le prigioni del regime cubano, luogo dove in questi momenti non dovrebbero stare e dove sono castigati doppiamente perché non accettano di lasciare la patria in cui hanno vissuto per andare in Spagna, vorrei dire che

sebbene non ho la stabilità di un luogo dove risiedere con i miei familiari, sto imparando a vivere nella libertà e nella democrazia, e mi ritrovo a fare tutto ciò che è alla mia portata perché anche loro possano uscire da quei “cimiteri di uomini vivi” che sono le prigioni del regime cubano.

Prospettive e realtà in Spagna, dopo cinque mesi?

Miguel Galbán: Arrivando a Madrid, le mie aspirazioni erano quelle di viaggiare un giorno verso gli Stati Uniti dove ho familiari e amici, e continuare a scrivere sulla realtà cubana. In attesa di quell’obiettivo, cerco di guadagnarmi il sostentamento giornaliero in questo Paese, che con grande comprensione ha voluto ammettermi insieme ad altri dieci membri del mio nucleo familiare, sulla base di un documento che ci hanno consegnato i funzionari del Consolato spagnolo prima di lasciare Cuba, in cui si spiega come fare per inserirci nella società.

Quando siamo arrivati a Barcellona, in Catalogna, comunità autonoma spagnola, dove sono residente, la Croce Rossa che ci aiuta non conosceva i contenuti di quel documento, ci siamo trovati spaesati, senza un appoggio ufficiale. Inoltre, talvolta il modo di lavorare di questa ONG si differenzia tra le diverse parti del territorio spagnolo.

I miei programmi, di fronte a queste complicazioni, non hanno subito alcuna modifica. Ciò che ho fatto è di adeguarli alle circostanze. Le difficoltà non saranno mai paragonabili a ciò che ho affrontato sotto la tirannia dei fratelli Castro.

Le difficoltà più grandi riguardano in questo momento il riconoscimento dei nostri titoli professionali, per avere l’opportunità di competere per un posto nel mercato del lavoro e poterci inserire nella società spagnola.

Ancora non sono riuscito ad avere tutta l’attenzione medica di cui ho bisogno riguardo i miei denti e la vista. Bisogna ricordare che sono uscito da una prigione per arrivare direttamente in questo Paese, che rispetto e ammiro, e che ringrazio per avermi consentito di venire insieme al mio nucleo familiare.

Il pessimismo è consolato dalle dimostrazioni di affetto e di sostegno, da che siamo arrivati, manifestate dal popolo spagnolo, soprattutto dai madrileni.

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ZENIT Staff

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