Lampedusa-Otranto, un lungo ponte di vera fraternità

Celebrati i 20 anni dallo sbarco della prima nave carica di albanesi

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ROMA, domenica, 6 marzo 2011 (ZENIT.org).- Lampedusa di oggi, Otranto di ieri: un filo diretto di disperazione ma anche di vera fratellanza nell’accoglienza lega queste due località di frontiera italiana. Una storia quella dell’immigrazione destinata a ripetersi, soprattutto in un periodo come quello attuale dominato dalle rivolte di popolo contro i regimi dittatoriali che hanno incendiato il Nord Africa. 

Per non dimenticare, giovedì 3 marzo, la Caritas Idruntina, il comune di Otranto, Agimi “Centro Albanese di Terra d’Otranto”, Misericordia e l’associazione Art’Etica hanno organizzano una fiaccolata e una tavola rotonda in occasione del ventennale degli sbarchi delle prime ondate migratorie provenienti dall’Est. Il 3 marzo 1991 approdò, infatti, nel porto di Otranto la prima nave con a bordo i disperati scappati dalle coste albanesi per rincorrere il “sogno chiamato Italia”.

Partita dalla Piazza degli Eroi, presso il porto, la fiaccolata, che ha visto la partecipazione delle istituzioni civili, religiose e militari, così come le associazioni del territorio, si è snodata attraverso le vie cittadine, fermandosi all’interno del cimitero per rendere omaggio alle tombe anonime dei naufraghi albanesi durante un breve momento di riflessione e preghiera guidato dall’Arcivescovo di Otranto, mons. Donato Negro. La fiaccolata è quindi terminata al centro “Don Tonino Bello” dove si è tenuta una tavola rotonda, cui hanno preso parte autorità istituzionali italiane e albanesi.

Mons. Giuseppe Colavero, vero interprete del messaggio dell’apostolo della pace e dei lebbrosi Raoul Follereau e allora direttore della Caritas Idruntina, che in prima persona si trovò a fronteggiare il dramma delle centinaia di migliaia di migranti giunti sulle carrette del mare, ha portato la sua testimonianza all’incontro.

Da quell’esperienza, nacque infatti una iniziativa promossa da mons. Colavero, la fondazione nel sud dell’Albania di due centri per oltre venti piccoli allievi non vedenti, che gli valse in seguito un importante riconoscimento giunto dal Comune di Cavriago, in provincia di Reggio Emilia: il “Premio per la Pace Giuseppe Dossetti”.

Mons. Colavero oggi è direttore dell’associazione Agimi (che in albanese significa “l’alba”), un’associazione senza scopo di lucro, nata sotto la spinta della stagione degli sbarchi sulle coste pugliesi, che si occupa di scambi interculturali e promozione umana tra l’Italia e l’Albania, attraverso progetti ed iniziative in entrambi i Paesi.

“In questi anni – ha detto il direttore di Agimi durante la tavola rotonda –, specie nel primo decennio, ci siamo lasciati mettere in discussione e ci siamo messi in discussione dal fenomeno dell’immigrazione, sia come società civile che come comunità ecclesiale, ma anche come famiglie e come persone”.

“Abbiamo praticato la virtù umana e cristiana dell’accoglienza allo straniero – ha continuato –, ricordandoci l’insegnamento di Gesù, ripetuto più volte dai Pontefici: ‘Tra noi nessuno è straniero, ed anche il nemico è nostro fratello’. Abbiamo, nell’emergenza aperto gli edifici scolastici, a volte le chiese, i locali parrocchiali, lo stesso seminario; le famiglie hanno aperto le porte delle loro case il sabato e la domenica ed alcune anche per periodi lunghi ai minori che avevano bisogno di aiuto”.

“Poi – ha proseguito – anche i nostri giovani nelle assemblee parrocchiali e/o nelle assemblee studentesche hanno cominciato a ripetere gli slogan che certa cultura ci ha propinato: albanesi criminali, immigrati ladri, vengono a togliere il posto di lavoro agli italiani, e via di questo passo”.

In questi 20 anni, ha aggiunto, “l’Albania è stata per noi Laboratorio di convivenza, di ecumenismo e di dialogo interreligioso. Abbiamo riflettuto spesso e molto sull’omelia di Giovanni Paolo II sul Colle dei Martiri il 5 ottobre 1980”, quando “lanciò con grande coraggio una richiesta di libertà per il popolo albanese, e si era in pieno regime comunista di Enver Roxha e chiese che si avviasse nella Chiesa cattolica e nel mondo il dialogo tra tutte le religioni, in particolare tra le tre grandi religioni ebraica, cristiana, islamica”.

Nel 1991, ha proseguito, “pur nelle difficoltà e con i condizionamenti che la situazione imponeva cominciammo a domandarci se con l’arrivo di centinaia di migliaia di albanesi in Italia doveva cambiare qualcosa nella nostra vita, da molti punti di vista”.

Invece, si è poi domandato, “oggi, quando gli immigrati in Italia sono diventati 6 milioni e provengono ormai da tutti i paesi del mondo, come ci poniamo? Che cosa speriamo? Che tornino a casa loro dopo aver messo da parte un po’ di soldi, come è successo per i Salenti emigrati in Europa negli anni ’60-’90?”

A questo proposito, ha suggerito, andrebbe ripercorsa l’esperienza dei Gemellaggi tra Caritas e comunità ecclesiali in Albania, tra parrocchie e villaggi, tra Comuni del Salento, della Puglia e dell’Italia e realtà civili e sociali, tra scuole, tra associazioni, i Campi lavoro estivi, i vari progetti, come il Volo d’Aquila dell’Agesci nazionale che portò in Albania alcune migliaia di giovani scout.

Riallacciandosi all’attualità mons. Colavero si è quindi chiesto: “Esiste un Progetto politico in Italia nel quale il fenomeno immigrazione abbia il suo posto e la sua dignità? Quale Italia e quale Europa sogniamo o pensiamo che debba nascere o stia nascendo, forse anche contro i nostri desideri e le nostre aspettative?”.

“Quale atteggiamento abbiamo? Che cosa insegniamo alle nuove generazioni? Come ci rapportiamo, cittadini e cristiani, con le famiglie che stanno nascendo alla maniera albanese: il padre musulmano, la madre cattolica e forse ortodossa, e i figli battezzati cattolici? Le comunità parrocchiali conoscono gli immigrati, le badanti presenti nel territorio? Ne condividono le difficoltà economiche, psicologiche, morali, spirituali?”.

“Grande è il ruolo delle istituzioni, che però io sento lontane e su posizioni antistoriche. Grande è il ruolo e più grande deve essere il ruolo della società civile, degli intellettuali, del volontariato”, ha notato.

“Grande è e deve essere, mi sia permesso dire, come credente e come prete, la missione della Chiesa in un terreno per il quale non manca l’insegnamento pontificio, ma forse è ancora insufficiente il carisma profetico”, ha infine concluso.

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ZENIT Staff

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