La famiglia e l’emergenza educativa

ROMA, sabato, 30 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato il 12 settembre scorso da mons. Ignazio Sanna, Arcivescovo di Oristano, in occasione della Conferenza sul tema “Maria, rendici simili a te” tenutasi presso la “Fraternità S. Carlo Borromeo” a Roma, nel VI Anniversario della benedizione del Santuario di Schoenstatt a Belmonte.

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1. La comunità cristiana e l’emergenza educativa.

Il Santo Padre Benedetto XVI, in una lettera indirizzata alla diocesi di Roma, ha scritto che “educare non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita.

“E’ forte certamente, continua il papa, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tentazione di rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il loro ruolo, o meglio la missione ad essi affidata. In realtà, sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli adulti o dei giovani, che pur esistono e non devono essere nascoste, ma anche un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita”.

“Oggi la domanda di un’educazione che sia davvero la chiedono i genitori, preoccupati e spesso angosciati per il futuro dei propri figli; la chiedono tanti insegnanti, che vivono la triste esperienza del degrado delle loro scuole; la chiede la società nel suo complesso, che vede messe in dubbio le basi stesse della convivenza; la chiedono nel loro intimo gli stessi ragazzi e giovani, che non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita”.

Secondo il papa, un’autentica educazione esige innanzitutto la vicinanza e la fiducia che nascono dall’amore. Ogni vero educatore, infatti, sa che per educare deve donare qualcosa di se stesso e che soltanto così può aiutare i suoi allievi a superare gli egoismi e a diventare a loro volta capaci di autentico amore.

Un’altra esigenza è il grande desiderio di sapere e di capire, che si manifesta nelle sue continue domande e richieste di spiegazioni. Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita.

Anche la sofferenza, precisa il papa, fa parte della verità della nostra vita. Perciò, cercando di tenere al riparo i più giovani da ogni difficoltà ed esperienza del dolore, rischiamo di far crescere, nonostante le nostre buone intenzioni, persone fragili e poco generose: la capacità di amare corrisponde infatti alla capacità di soffrire, e di soffrire insieme.

“Il punto più delicato dell’opera educativa sta nel trovare un giusto equilibrio tra la libertà e la disciplina. Senza regole di comportamento e di vita, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare le prove che non mancheranno in futuro. Il rapporto educativo è però anzitutto l’incontro di due libertà e l’educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane; dobbiamo dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo sempre attenti ad aiutarlo a correggere idee e scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo mai fare è assecondarlo negli errori, fingere di non vederli, o peggio condividerli, come se fossero le nuove frontiere del progresso umano”.

“L’educazione non può dunque fare a meno di quell’autorevolezza che rende credibile l’esercizio dell’autorità. Essa è frutto di esperienza e competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell’amore vero. L’educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch’egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione”.

2. Un metodo per l’educazione

Un’educazione umana integrale sarà tanto più valida e adeguata quanto più efficace sarà il metodo che adotta. Ora, a mio parere, un metodo di un’educazione particolarmente efficace lo si riscontra in quel passo del Deuteronomio, che descrive come il padre debba raccontare al figlio il nucleo della storia della salvezza. Come il padre racconta al figlio la storia degli interventi di Dio a favore del suo popolo, così, in qualche modo, la comunità cristiana deve raccontare la storia della salvezza. In fondo, all’origine della costituzione dell’identità culturale di un popolo, prima ancora della sua identità territoriale e giuridica, c’è il racconto di un grande evento, della vita e delle gesta di grandi personaggi, dei cosiddetti padri della patria, delle tradizioni, degli usi e dei costumi degli antenati. L’identità storica, politica, religiosa di un popolo è legata ai racconti che conservano il patrimonio di valori che sta alla base di determinati modelli di comportamento. I miti, le leggende, le saghe sono gli strumenti per raccontare e tenere viva la memoria e l’identità di un popolo. Un popolo senza racconti è destinato a perdere la propria identità, a morire. Dice il testo della Scrittura: “quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha dato? tu risponderai a tuo figlio: eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente” (Dt 6, 20-21). Dunque, la comunità cristiana educa i suoi membri e trasmette loro i valori fondamentali raccontando la storia della salvezza, e contribuendo così a costruire la loro identità.

3. L’azione educativa di Dio

2.1. Dalla storia della salvezza, quindi, ricaviamo l’insegnamento che Dio Padre è un educatore, che educa il suo popolo con uno stile particolare. Di conseguenza, la pedagogia della comunità cristiana, della famiglia e della scuola, luoghi primari di formazione umana e cristiana, non può non riprodurre in qualche modo una immagine della “pedagogia Dei”, ossia della pedagogia di Dio che educa il suo popolo come un padre educa il figlio. In ultima analisi, tutta la storia della salvezza è una grande pedagogia divina dei popoli e dei singoli uomini. La Dei Verbum scrive che i libri dell’AT sebbene contengano cose imperfette e temporanee dimostrano tuttavia una vera pedagogia divina (Dv, 15). E la caratteristica di questa pedagogia divina è quella di porre al centro Dio stesso. Essa, perciò, prima ancora di una possibile valenza formativa, ha una valenza soteriologica e mette in risalto come la dignità dell’uomo da educare abbia il suo ultimo fondamento nell’essere questi creato ad immagine e somiglianza di Dio. A differenza della paideia greca, la paideia biblica ha come oggetto ultimo la salvezza che viene operata da Dio stesso, non la felicità o l’interna autoformazione dell’uomo. Essa non può perciò fornire indicazioni dirette per una pedagogia umana, ma rivela l’agire salvifico di Dio, che ama educando ed educa amando.

La lettera agli Ebrei (Eb 12, 9-11) presenta un serrato confronto tra lo stile pedagogico dell’uomo e quello di Dio, ed evidenzia la profonda differenza che esiste tra la paideia divina e quella umana: effimera, penosa e dai criteri incerti la paideia dei padri terreni (si pensi, in Ef 6,4, alla condanna di una educazione paterna improntata a durezza); veramente proporzionata ad efficaci risultati di santità e perfezione quella del Padre celeste. Questa paideia del Padre celeste segue la strategia dei tempi lunghi e perciò richiede il coraggio della pazienza e della s
peranza per poter conseguire frutti di gioia, di pace, di giustizia. Il traguardo del lungo processo educativo divino, comunque, non è un uomo autosufficiente e in pace con sé, ma un uomo virtuoso e in pace con Dio.

L’azione educativa di Dio per il suo popolo è ben delineata dal Cantico di Mosè riportato in Dt 32, 10-12: “Egli lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo educò, ne ebbe cura, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le sue ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore lo guidò da solo, non c’era con lui alcun Dio straniero”. Questo passo biblico non è isolato ma esprime una persuasione costante della Scrittura: il grande educatore del suo popolo è Dio. Il castigo più terribile che potrebbe colpire gli uomini della Bibbia non sarebbe quello di punizioni particolari, ma quello di sentirsi abbandonati dalla guida amorevole, sapiente, instancabile di Dio, Padre provvidente e signore del futuro.

4. L’educazione e la formazione dell’uomo

La formazione dell’uomo si articola nelle istanze dell’identità, della libertà, della relazionalità. Queste rispondono alle domande esistenziali di chi si è (identità); chi si vuole diventare (libertà); come si vuole vivere (relazione)

3.1. Identità

Per quanto riguarda la prima istanza, è noto che la formazione dell’identità avviene di norma con il riferimento a dei criteri che costituiscono una sorta di “confine” tra due determinate realtà. Il confine, per un verso, separa e divide una realtà da un’altra, una nazione dall’altra, un’istituzione dall’altra, per un altro verso, costituisce l’elemento che consente l’identificazione di sé. Il confine separa e divide, ma non allontana; tiene distinte e allo stesso tempo vicine due realtà. Queste, infatti, continuano ad essere contigue, a confinare, appunto, a delineare qualcosa insieme. I criteri più noti e più comuni per determinare l’identità di ciascun individuo vanno dal radicamento in una specifica comunità, all’appartenenza a una tradizione religiosa e a una storia particolari, alla condivisione di una lingua e di un patrimonio culturale. Il processo identitario mediante l’assimilazione di questi criteri può svilupparsi come l’innalzamento di una barriera che tende a chiudere, a isolare, a difendere l’identità di un soggetto contro influenze esterne, portando a fenomeni di intolleranza, di arroganza, di fondamentalismo, o può svilupparsi come l’apertura al confronto, al dialogo con il “diverso”, all’incontro con l’altro, così come avviene nella prospettiva psicologica dell’identità individuale nella quale ogni singolo individuo si costruisce in tempi, modi e ambienti diversi, crescendo nella relazione, negli affetti, nei rapporti interpersonali.

L’identità è una realtà molto complessa e articolata. Non è la stessa cosa, per esempio, parlare di identità biologica, identità politica, identità religiosa, identità culturale, identità sociale di una persona, e così via. Tutte queste manifestazioni di identità sono una declinazione al plurale della stessa essenza di identità. L’esperienza ci insegna, infatti, che un singolo uomo ed una singola donna possono essere considerati secondo la loro credenza religiosa o la loro appartenenza politica o nazionalità geografica o stato sociale. Bisogna distinguere sempre, perciò, i segmenti di identità e la risultante dell’identità. L’identità, in se stessa, è semplicissima, tanto è vero che viene continuamente riconosciuta da tutti senza difficoltà, ma al tempo stesso fa problema perché non è mai chiaramente definito il rapporto tra i cambiamenti che l’identità stessa può tollerare e quelli che la distruggono. In qualche modo, tutto si gioca nella dialettica tra gli accidenti che cambiano e la sostanza che deve permanere nella sua consistenza e nei cosiddetti principi di vera unità.

Proprio per questa polivalenza dell’identità, è necessario ribadire chiaramente che l’identità da promuovere è quella personale, che viene prima di tutte le altre forme di identità e delle quali costituisce la base portante. La riaffermazione dell’identità personale è oggi più che mai necessaria, per il fatto che, nella crisi generalizzata di riferimenti ideologici sicuri, si è ormai al trionfo dell’indistinto, cioè di una caratteristica sfuggente di tutto il mondo contemporaneo dove le identità storiche, nazionali o ideologiche che siano, si dissolvono e al loro posto si insedia un insieme di comportamenti (di consumo, di comunicazione di massa, di mobilitazione emotiva) strutturalmente troppo labili e generici per garantire nuove e significanti identità.

3.2. Libertà

La seconda istanza è la libertà. Ora, per l’antropologia cristiana, la libertà è il segno altissimo dell’uomo creato a immagine di Dio (GS,17).

Anzitutto, va rilevato che la concezione dell’immagine sottolinea che tutto l’uomo è immagine di Dio, nel senso che la dimensione dell’immagine, in stretto rapporto di dipendenza dall’archetipo personale che è Dio, si estende anche alla realtà corporea e non rimane confinata solo nella realtà spirituale (cf Gal, 5; 1 Ts 5, 23-24). Nel passato, lontano e vicino, è spesso prevalsa nella teologia e nella pedagogia spirituale del mondo occidentale un’antropologia dualistica che, penalizzando il corpo e privilegiando lo spirito, produsse un soggetto angelicato, slegato da vincoli corporei e materiali. Nel presente, soprattutto nel mondo adolescenziale e giovanile, si avverte una situazione di disagio nel modo di gestire il rapporto con la propria corporeità, quasi si facesse fatica a concepire in unità esistenziale la dimensione spirituale-mentale-psichica e quella materiale corporea. Gli estremi opposti di questo disagio si manifestano con il rifiuto del corpo o con la sua esaltazione quasi feticistica, che producono una “corporeità inventata”. Una corretta teologia dell’immagine corregge questa visione riduttivistica dell’uomo e della donna e ne rivaluta la dimensione integrale di spirito incarnato.

In secondo luogo, la concezione dell’immagine sottolinea anche che tutti gli uomini sono immagine di Dio (cf Gal 3, 28; Ef 2). L’estensione dell’immagine a tutti gli uomini, oltre a costituire la base della vera universalità della natura umana, è anche la base di una vera democraticità ed uguaglianza degli uomini. Mentre, infatti, nella tradizione delle religioni orientali solo i sovrani erano considerati rappresentanti delle divinità nazionali, nella tradizione biblica ogni uomo in quanto tale è una manifestazione di Dio.

In terzo luogo, la concezione dell’uomo immagine di Dio afferma che l’uomo è uomo davanti a Dio (Cf Rm 8, 37-39). Questo fatto evidenzia la radicale relazionalità di ogni essere umano, documentata sin dai primordi della storia della salvezza. E’ esperienza condivisa, d’altra parte, che l’uomo vive di relazione, che ha bisogno dello sguardo d’un altro per essere veramente se stesso. Questo altro, per l’autore biblico, non può che essere Dio. L’uomo è immagine non di se stesso, ma di un Altro che egli non riuscirà mai ad afferrare e che gli sfuggirà continuamente. I due termini ebraici che indicano immagine e somiglianza, selem e demut, evocano una copia che esiste solo in dipendenza dal suo modello. Perciò, il testo biblico intende affermare che per l’uomo vivere in dialogo non solo con il suo simile, la donna, ma anche con il suo dissimile, Dio, è una necessità assoluta. Come la copia non la si può capire se non in rapporto al suo modello, così non si può comprendere l’uomo se non in rapporto e in dipendenza da Dio. L’uomo è il tu di Dio nella stessa misura in cui Dio è il tu dell’uomo.

3.3. Relazionalità

La terza istanza è la relazionalità. Una costante del processo identitario è senza dubbio la dimensione dialogica dell’esistenza umana, attestata dalla sa
ggezza antica e moderna che ha sempre considerato l’uomo come un “animale sociale”.

L’esistenza dell’individuo, all’alba della sua avventura umana, per così dire, inizia con lo sguardo della madre che ogni neonato attira su di sé. Grazie a quello sguardo materno, il neonato si sente accolto, riconosciuto, amato. Alla sua nascita, il piccolo di un uomo non si distingue radicalmente da quelli delle altre specie animali, per esempio le scimmie superiori: il bambino aspira a essere confortato, scaldato e nutrito, così come i piccoli delle scimmie. Ma ci sono delle grosse differenze. Una differenza molto significativa è che a un’età corrispondente più o meno alla settima o ottava settimana di vita, il lattante fa un gesto che non ha uguali nel mondo animale. Egli non si accontenta più di guardare la madre. Questo lo fa dal momento stesso della sua nascita. Ma egli cerca di catturare il suo sguardo, per esserne guardato. Ricerca e contempla lo sguardo che lo contempla. Questo è l’avvenimento primordiale grazie al quale il bambino entra in un mondo inequivocabilmente umano.

Se si tiene conto di questo dato sperimentato universalmente, si conviene nel ritenere che la relazione con gli altri sia il cuore stesso della nostra umanità. L’altro effettivamente nella storia di ognuno precede e non segue il nostro io. Il nostro senso di identità, la possibilità di dire io dipende infatti dal fatto che qualcuno ci abbia rivolto la parola, lo sguardo, l’affetto, ci abbia detto tu, riconoscendoci e volendoci nella nostra specificità e diversità. La formazione di una coscienza dialogica e relazionale, perciò, dovrebbe essere alla base di ogni percorso educativo: essere persone e cittadini di dialogo e di relazione è condizione indispensabile per lo sviluppo di un’identità e di una soggettività capace di aprirsi all’altro, al mondo, alla realtà, senza paure di essere assorbiti e fagocitati. Anzi, l’apertura ai bisogni dell’altro diventa chiave di accesso per comprendere se stessi, in una tensione costante fra appartenenza/identità e relazione/alterità. E’ in questa tensione permanente tra identità/appartenenza e alterità/relazione che l’esperienza umana si apre o alla gioia dell’incontro o all’amarezza dell’esclusione e del rifiuto.

La società occidentale, ricca e supetecnologica, è popolata di uomini e donne disperati che vagano in un deserto popolato di oggetti, alla ricerca affannosa della felicità. La felicità inseguita è quella della piena gratificazione dei desideri, dei sogni, confusamente nutriti dal proprio ego. Questa società fondamentalmente individualistica ed egoista fa dimenticare spesso che la ricchezza della vita umana si manifesta essenzialmente nella gratuità delle relazioni. Ogni essere umano ha bisogno di essere amato ed accolto, di amare e di accogliere. Questa società, invece, propone come unica realtà accettabile e fondante quella del possesso. Anche i figli sono un possesso che deve essere conseguito con la garanzia della legge. Si afferma sempre più la convinzione che avere un figlio, magari solo per metà proprio, sia un diritto insindacabile, che viene prima di ogni altro diritto, compreso quello della salute. Si pensa che sia possibile vincere i limiti imposti dall’età e dalla sterilità, e, pur di superarli, ci si sottopone a qualsiasi esperimento che può essere tentato dalle biotecnologie.

In conclusione, ricordiamoci che secondo Romano Guardini, si insegna prima con quello che si dice, poi con quello che si fa, infine con quello che si è. Per essere buoni educatori, allora, bisogna essere buoni cristiani.

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ZENIT Staff

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