Uno degli errori oggi più diffusi è quello di sottovalutare le basi teologiche e impostare dei progetti pastorali senza il fondamento dottrinale, con esclusiva attenzione alle urgenze sociologiche. In tal modo tutto diventa fragile e, in poco tempo, anche un progetto alquanto elaborato viene travolto dal passare di quelle opinioni momentanee che l’hanno generato. Questa insipienza, tipica del relativismo, porta a non dedicare sufficiente tempo ed energie alla formazione teologica e, non considerandone adeguatamente la sua necessità essenziale, tutta la costruzione è posta in stato permanente di crollo. E’ ciò che avviene anche nel tessuto ecclesiale, quando miriadi di pubblicazioni e interminabili riunioni producono frutti effimeri e bruciano inutilmente le migliori intenzioni. Di qui lo stato diffuso di spossatezza e di inefficacia, che debilita i pastori e i fedeli.
Anche riguardo alle esequie ecclesiastiche, una pastorale intelligente, duratura ed efficace sul popolo di Dio, non può che basarsi su una solida teologia, che illumini e giustifichi il senso dei riti liturgici. Il Sommo Pontefice Benedetto XVI è maestro di questa rifondazione teologica a tutto l’agire della Chiesa e il suo magistero, se accolto con docilità, porterà la Chiesa a quella solidità di pensiero e di azione, che è intrinseca alla rivelazione divina e che non ammette il dubbio sistematico e la vaporosità di una ricerca mai conclusa e fine a se stessa. Per questa urgente opera di rifondazione teologica il Papa esordisce indicando come prima emergenza proprio la Liturgia, culmen et et fons’ della vita della Chiesa. Le sue omelie, in particolare, introducono i fedeli nella celebrazione dei santi Misteri in linea con la più classica tradizione mistagogica dei Padri, costituendo un esempio di alto profilo per tutti i sacerdoti.
Le esequie cristiane si rapportano alle due dimensioni costitutive dell’uomo: l’anima e il corpo. La Chiesa eleva il pio suffragio per l’anima immortale del defunto, nella speranza della sua eterna salvezza, e ne onora con una degna sepoltura il corpo esanime, nell’attesa della sua risurrezione.
I riti esequiali descrivono e trasmettono fondamentali articoli di fede, che costituiscono la ‘forma’ interiore e il senso dei riti esteriori trasmessi dalla tradizione liturgica.
Possiamo allora individuare i principali dogmi che vi sono sottesi.
1. L’immortalità dell’anima
Nelle esequie cristiane spira una presenza soprannaturale, che ci fa percepire che l’anima del defunto non è estinta nel nulla, ma è viva, perché immortale. Sta ora sul versante ultraterreno, è uscita dal regime della fede ed è entrata nella dimensione dell’ eternità. Pur separata dal corpo, sussiste nell’esercizio, per quanto misterioso ma reale, delle sue facoltà spirituali. Tale certezza fa delle esequie una celebrazione di vita e di profonda serenità, pur nell’amarezza delle lacrime per il distacco e apre i credenti all’attesa di un rinnovato incontro con chi vive e ci aspetta lassù, come ben si esprime una monizione del rito delle esequie: “…di nuovo infatti, potremo godere della presenza del fratello nostro e della sua amicizia e, questa nostra assemblea, che ora con tristezza sciogliamo, lieti un giorno nel regno di Dio ricomporremo” (Rito delle Esequie, n. 73).
2. Il purgatorio
La Chiesa sa bene che ogni uomo è peccatore e, nonostante il lavacro battesimale, a causa della concupiscenza, la vita della Grazia è fragile e l’itinerario terreno faticoso e incerto. Al di là del perdono sacramentale, elargito ordinariamente mediante il sacramento della Penitenza, la Giustizia divina esige una adeguata riparazione, prima che l’anima possa accedere alla gloria: è il dogma del purgatorio. La Chiesa, dunque, non presume mai nei suoi figli quello stato perfetto di santità, che solo Dio può riconoscere e, umilmente, invoca misericordia, eleva il suffragio e si mantiene sotto il giogo della penitenza. Per questo lo stile della liturgia esequiale è penitenziale: nel colore (viola o nero), nell’addobbo (assenza di fiori), nel tenore delle orazioni e nei canti. La Chiesa non ‘canonizza’ il defunto, ma lo affida a Dio con il cuore contrito ed umiliato e aspetta solo da Lui la lode. In qualche modo, nelle esequie, la Chiesa, secondo la parabola evangelica del banchetto nuziale (Lc 14, 7ss.), pone il defunto all’ultimo posto, steso a terra ai piedi della ‘santa mensa’, e attende che Dio stesso, e solo Lui, sorga e dica “Amico, passa più avanti” (Lc 14, 10).
3. La comunione dei Santi
La Chiesa sa di poter comunicare misteriosamente con i Defunti, di poterli affidare realmente alla misericordia di Dio, di avere con loro una misteriosa solidarietà soprannaturale e ricevere il beneficio di una invisibile e valida intercessione. Per questo educa i suoi figli, ancora peregrini qui in terra, a mantenere una continua comunione con coloro che ci hanno preceduti nel segno della fede e dormono il sonno della pace. Le persone amate e tutti quelli che ci hanno fatto del bene ci seguono, ci amano con carità soprannaturale e intercedono per noi secondo i disegni di Dio. Essi ci attendono là dove ogni lacrima sarà asciugata e si vedrà il volto di Dio. S. Cipriano afferma tutto ciò con squisita dolcezza: “Là ci attende un gran numero di nostri cari, ci desiderano i nostri genitori, i fratelli, i figli in festosa e gioconda compagnia, sicuri ormai della propria felicità, ma ancora trepidanti per la nostra salvezza” (Lit. Ore, Uff. lett. venerdì 34° sett. ord.).
Soffermiamoci a questo punto a considerare gli effetti che la secolarizzazione sta oggi producendo, entrando violentemente nella liturgia esequiale della Chiesa. Il cuneo che ne consente l’ingresso è costituito da un concetto di ‘pastorale’ intesa ormai solo come accondiscendenza sociologica all’ambiente, senza più riferimento al Mistero della fede.
La mentalità secolarizzata dominante cancella totalmente i dogmi della fede sopra esposti e svuota di conseguenza lo spirito e la lettera dei riti liturgici stabiliti dalla Chiesa, che vengono devitalizzati, alterati e, infine, omessi e reinventati.
Mentre le esequie ecclesiastiche sono celebrazioni vive nel presente e rivolte al futuro, aperte alla speranza teologale e alla luce mirabile di ciò che ancora non vediamo, le esequie secolarizzate sono irreversibilmente rivolte al passato, travolte dal flusso inesorabile del tempo e fragili come la memoria psicologica. Infatti, se il defunto è nel nulla e di lui non rimane niente come persona viva, se insomma l’immortalità dell’anima è negata, resta solo il triste ricordo, totalmente sul versante del passato e inesorabilmente sempre più flebile, fino alla sua graduale dissoluzione. Per questo la secolarizzazione accentra la celebrazione sulla commemorazione del defunto. Essa, infatti, è il perno rituale nelle esequie profane. Ma la commemorazione è sguardo al passato. La persona commemorata né vive, né più ritornerà. Di essa rimangono solo le sue idee, il suo esempio e le sue opere: tutte realtà compiute dalla persona estinta, ma prive del soggetto vivo che le ha prodotte e quindi affidate alla interpretazione positiva o negativa dei posteri, come anche alla loro totale obliterazione.
Se l’anima non vive più, diventa del tutto inutile la preghiera di suffragio per l’eventuale purificazione ultraterrena. Col dogma dell’immortalità dell’anima cade pure quello sul purgatorio e quello della comunione dei Santi. Così in linea con la secolarizzazione si farà ampio uso dell’elogio.
Non resta, infatti, che celebrare con enfasi quei ‘fasti’, che ora sono retaggio della memoria di chi ha conosciuto il defunto. La compiacenza verso i parenti o verso le istituzioni a cui apparteneva esige che un grande elogio funebre consoli chi re
sta e giustifichi l’ideologia o l’istituzione a cui il defunto aderiva. Ebbene la commemorazione e l’elogio stanno inquinando in modo esteso le esequie cristiane, sia in certe omelie, come soprattutto in interventi disseminati nel tessuto del rito esequiale e proposti in momenti rituali e luoghi sacri del tutto impropri. La ‘canonizzazione’ del defunto si manifesta anche nei riti: l’uso facile di paramenti bianchi e canti di superficiale sentimentalismo stanno corrompendo la liturgia esequiale cristiana, che da molte parti non esiste più nella sua vera identità. Gli applausi sono i prodotti secolaristici delle acclamazioni liturgiche e un buonismo livellante sta cancellando ogni annunzio rigoroso del dogma della fede. Quella sobrietà e delicata circospezione che la Chiesa raccomanda, sia nel ricordare il defunto, come nel proporlo ad eventuale esempio ai fedeli, sta cedendo di fronte all’irruzione del costume dominante, che ormai costringe e assedia con modelli imposti violentemente dall’opinione.
Le esequie si rapportano anche al corpo del defunto, che sta per ricevere degna sepoltura. Ed anche verso di esso i riti della Chiesa rivelano e comunicano importanti dogmi di fede, che completano quelli già sopra descritti.
4. Il peccato originale
Il corpo quando è vitale sta in posizione eretta, ma, appena la vita lo abbandona, cade a terra e rimane disteso. Tutti gli uomini non possono che constatare questo fatto fisico. E’ quindi questa la posizione più naturale del corpo esanime nelle esequie. La Chiesa però non si ferma a questo dato e annunzia un mistero più profondo: l’uomo muore a causa del peccato originale, secondo le stesse parole del Signore Dio “…polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Gen 3, 19). Deponendo il corpo dei suoi defunti, la Chiesa proclama la realtà del peccato originale, di cui la morte corporale è frutto e immagine. Essa non è secondo il piano di Dio, infatti: Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi, ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sap 1, 13.2, 24). In tal senso il Miserere (Sl 50) è parte tradizionale delle esequie cristiane: ‘nel peccato mi ha concepito mia madre’. Il corpo disteso a terra, quasi a contatto con essa, proclama in modo visivo il nostro essere peccatori, pagandone il prezzo con la perdita dell’immortalità e portando nella nostra carne fino alle ultime conseguenze il castigo divino, pronunziato fin dalle origini: “…tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto…” (Gen 3, 19).
5. L’ultima penitenza
La morte corporale è l’ultimo atto della necessaria penitenza dovuta al peccato. Tutti, per quanto eminenti in santità, devono passare per questo estrema prostrazione penitenziale. Il Signore stesso, senza peccato, ha voluto subire nella sua morte e sepoltura, quella abissale umiliazione penitenziale che ci ha redenti. Ed ecco che il corpo senza vita del defunto, deposto davanti all’altare, in qualche modo celebra il suo ultimo atto penitenziale: il giacere esanime sulla terra. Lo aveva ben compreso S. Francesco di Assisi, che in prossimità della morte, volle farsi deporre dai suoi confratelli sulla nuda terra e così esalare l’ultimo respiro. Lo comprese il Papa Paolo VI, che volle il suo feretro a contatto con la terra e in tal modo ispirò la forma più eloquente del rito cristiano delle esequie. Ma il defunto non giace da solo, la tradizione pone sulla bara la Croce. Egli giace in misteriosa solidarietà col mistero della sepoltura del Signore e lo Spirito custodisce la sua carne in attesa del risveglio.
6. La risurrezione della carne
Il feretro è vigilato dal Cero pasquale, che dal suo candelabro illumina le tenebre della morte: è Cristo risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti (1 Cor 15, 20). Se la croce sulla bara annunzia la solidarietà con la morte del Signore, il Cero pasquale annunzia la futura risurrezione di questa medesima carne, che ora sta esanime e immota. Poi quel corpo sarà deposto nel cimitero, ossia nel dormitorio, termine cristiano per affermare il misterioso ma vero risveglio nell’ultimo giorno. Tutto quindi parla di vita, anche per la carne e non solo per l’anima; e questa è la novità più tipica dell’escatologia cristiana, che annunzia una salvezza integrale della totalità della persona, anima e corpo.
Ed ecco, che, appena la secolarizzazione invade il rito cristiano delle esequie, pure questi altri dogmi della nostra fede vengono letteralmente cancellati e alla loro rimozione segue, inevitabile, una liturgia di sostituzione, che interpreta la nuova visione. Se cade il dogma del peccato originale, cade quello della penitenza quale necessità per il peccato e, se già l’anima è estinta nel nulla, ancor più il corpo è ormai inteso come materiale inerte, senza la profondità propria del mistero di Dio, che lo risusciterà. Anche riguardo al corpo nelle esequie secolarizzate lo sguardo è irrimediabilmente rivolto al passato: non c’è l’orizzonte luminoso sul Dio dei viventi e l’attesa dell’opera meravigliosa, che Egli compirà nel giorno della risurrezione. I riti allora dovranno interpretare la visione dell’uomo terreno, ormai privo del trascendente. Il corpo subisce la fatua celebrazione di ciò che fu nel passato mediante il tumolo, monumento celebrativo che vuole interpretare la personalità dell’estinto. Si metterà in luce il suo ruolo, la sua autorità, il suo genio, la sua opera, ma al contempo si creerà una graduazione di classi in base al censo, o al ruolo sociale. Comunque sarà oscurata sia la fondamentale realtà della morte che tutti accomuna, sia dell’umile penitenza che è intrinseca allo stato del corpo morto. Il tumolo potrà avere diverse tipologie, che da quelle storiche arrivano a quell’ingombro di oggetti, cari al defunto, che oggi coprono, talvolta banalmente la bara, ma rappresenta sempre il segno eloquente di quella commemorazione rivolta irrimediabilmente al passato e ormai priva di vita, che sarà tanto più accentuata quanto più si eclisserà il senso della trascendenza e il compimento ultimo nel futuro di Dio. Non si intende qui considerare le diverse forme storiche, assunte anche dalla liturgia della Chiesa, ma assicurare che in ogni forma antica o nuova non venga mai compromesso il carattere cristiano e i diversi aspetti del dogma della fede che vi sono connessi e che nelle modalità rituali devono essere ben visibili. E’ altresì evidente che nella celebrazione profana delle funerali il tumolo col cadavere elevato e onorato diventa l’icona centrale, il punto ottico di attrazione, ma nella celebrazione esequiale cristiana, invece, nessuno dovrà mai attentare alla centralità, al primato e alla sacralità dell’altare. Anche il corpo esanime del defunto è orientato all’altare, davanti ad esso sta prostrato e da esso, sul quale si compie il Sacrificio incruento della Croce, scaturisce la sorgente viva della salvezza eterna dell’anima e il soffio vitale che risusciterà la carne nell’ultimo giorno. A nessuno, dunque, è lecito attentare alla maestà dell’altare!
Un ultimo dogma della fede sta a fondamento del carattere proprio delle esequie cristiane:
7. Il giudizio particolare da parte dell’unico giudice costituito da Dio, il Signore Gesù Cristo.
Occorre non dimenticare ciò che afferma l’Apostolo: Io neppure giudico me stesso… Il mio giudice è il Signore (1 Cor 4, 4). La Chiesa, ispirando a sobrietà la commemorazione del defunto ed evitando un superficiale elogio, sa bene che solo Dio è il giudice e solo Cristo sa quello che c’ è nel cuore dell’uomo (Gv 2, 25). Quello che di una persona apparve in vita potrebbe essere una ingannevole maschera, infatti l’uomo guarda all’apparenza, ma Dio guarda al cuore (1 Sam 16, 7). S. Agostino afferma: “Quale uom
o infatti è in grado di giudicare un altro uomo? Il mondo è pieno di giudizi avventati. Colui del quale dovremmo disperare, ecco che all’improvviso si converte e diviene ottimo. Colui dal quale ci saremmo aspettati molto, ad un tratto si allontana dal bene e diventa pessimo…. Che cosa sia oggi ciascun uomo, a stento lo sa lo stesso uomo. Tuttavia fino a un certo punto egli sa cosa è oggi, ma non già quello che sarà domani…” (dal ‘Discorso sui pastori’). Per questo la Chiesa si discosta dal giudizio e lo affida a Dio, restando in profonda adorazione del Suo giusto verdetto. Ciò non succede nelle esequie secolari, che impostano inevitabilmente la loro celebrazione sul mero tessuto dell’apparenza umana dell’estinto e si pronunziano solo sulla corteccia superficiale delle sue opere esteriori. Lo sguardo umano non può, infatti, andare oltre a ciò che appare e il mistero della persona rimane velato. Solo Dio penetra quel velo, scruta le facoltà interiori e pronunzia un giudizio vero, inappellabile e definitivo. Anzi, mediante l’elogio, tale apparenza tende ad essere potenziata e, omessa ogni scoria e debolezza, viene idealizzata, perché non resta altro che ciò che appare. Non raramente poi la verità oggettiva in ordine al bene e al male viene oscurata da una commemorazione riduttiva, posta a servizio delle tante umane convenienze di coloro che rimangono. Certo non si intende delegittimare la giusta commemorazione e il dovuto elogio, se il defunto veramente lo merita. Infatti le esequie del Giusto dovrebbero essere il suo ultimo atto di evangelizzazione e la consegna alla Chiesa, che lo ha generato, della sua estrema testimonianza di fedeltà e di vita in Cristo. Tuttavia sono diversi i toni, sobri gli accenni, umili i ricordi, contenuti i tempi e mai dovrà essere incrinato o in qualche modo oscurato il primato di Cristo e del suo Mistero. Egli è il Protagonista e con Lui la Chiesa, non dissociabile da Lui Sposa. In realtà ogni intervento indebito sul rito liturgico delle esequie espone il defunto ad un protagonismo che non deve avere e strumentalizza la fede e la liturgia al servizio del piccolo orizzonte di ciò che noi percepiamo.
Se non si interviene con urgenza e determinazione nella liturgia esequiale, come in molti altri campi della vita della Chiesa attuale, si arriverà, in un futuro molto prossimo, ad essere posti al servizio delle opinioni e del costume dominante e si potrebbe seriamente rischiare che l’eresia sia attribuita all’ortodossia, resa minoritaria, e a coloro che con tutte le forze cercano di mantenersi fedeli al dogma della fede e alla disciplina della Chiesa.
Che una solida teologia sia a fondamento di una nobile liturgia e l’intelligente obbedienza alle prescrizioni della Chiesa offra al popolo di Dio una edificante e degna celebrazione delle esequie dei figli di Dio.