La verità interroga il cuore

XXX Domenica del Tempo Ordinario, 24 ottobre 2010

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di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 22 ottobre 2010 (ZENIT.org).- In quel tempo Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano, invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato” (Lc 18,9-14).

La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità” (Sir 35,21-22a).

Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.(…)..tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore, però, mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen”. (2Tm 4,6-8; 16-18).

Il tema di questa liturgia prosegue quello della settimana scorsa: Dio fa giustizia alla nostra vita se trova in noi l’umile atteggiamento del pubblicano, il quale non osa né alzare gli occhi al cielo, né fare un passo avanti nel Tempio. Egli, tuttavia, vi è giunto mosso da una totale fiducia nella bontà divina: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13): così, perdonato e rigenerato “prontamente” (Lc 18,8), se ne torna a casa sollevato e pieno di gioia.

Il fariseo, all’opposto, non si ritiene bisognoso di perdono e platealmente ringrazia Dio per la magnifica salute spirituale di cui gode ai propri occhi, con i quali disprezza il pubblicano: “Non sono come gli altri uomini,..e neppure come questo pubblicano…” (Lc 18,11): così, lui che digiuna, se ne torna a casa euforico, ben pasciuto di sè. Ma il suo peccato fondamentale non è questa sfacciata obesità dell’io.

Ascoltiamo il commento magistrale di papa Benedetto: “Se il pubblicano, con tutti i suoi innegabili peccati, sta davanti a Dio più giustificato del fariseo con tutte le sue opere veramente buone, ciò avviene non perché in qualche modo i peccati del pubblicano non siano veramente peccati e le buone opere del fariseo non siano buone opere. Ciò non significa affatto che il bene che l’uomo compie non sia bene davanti a Dio e che il male non sia male davanti a Lui, e neppure che ciò non sia in fondo così importante. La ragione vera di questo giudizio paradossale di Dio, si mostra in questo: il fariseo non sa più che anch’egli ha delle colpe. E’ completamente in pace con la sua coscienza. Ma questo silenzio della coscienza lo rende impenetrabile per Dio e per gli uomini. Invece il grido della coscienza che non da tregua al pubblicano, lo fa capace di verità e di amore.

Per questo Gesù può operare con successo nei peccatori, perché essi non sono diventati, dietro il paravento di una coscienza erronea, impermeabili a quel cambiamento che Dio attende da essi, così come da ciascuno di noi. Egli non può invece avere successo con i “giusti”, precisamente perché ad essi sembra di non aver bisogno di perdono e di conversione; infatti la loro coscienza non li accusa più, ma piuttosto li giustifica.

Qui si tratta..della più profonda saggezza umana: il non vedere più le colpe, l’ammutolirsi della voce della coscienza in così numerosi ambiti della vita è una malattia spirituale molto più pericolosa della colpa, che uno è ancora in grado di riconoscere come tale(J. R.- Benedetto XVI, “L’elogio della coscienza, la verità interroga il cuore”, p. 12-13).

Il pericolo, dunque, è quello della superbia, vizio inevitabilmente “capitale” (nel senso che ne comanda molti altri), e peccato veramente “mortale”, poiché chiude il cuore al rapporto vitale con Dio, fondato sulla grazia e sul perdono. L’atteggiamento farisaico, compromettendo e falsificando la relazione d’amicizia con il Padre, è causa che ogni preghiera finisca, per così dire, in un lancio fallito, come, per contrasto, fa intendere questa descrizione opposta: “La preghiera del povero attraversa le nubi, né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità” (Sir 35,20.22a).

Le bombe così dette “intelligenti”, sono fabbricate per distruggere centrando il bersaglio da sole; ma Dio ha messo nelle nostre mani un’arma infinitamente più intelligente e potente, apportatrice di vita ovunque nel mondo: “la preghiera del povero”, in grado di “centrare” sempre il cuore di Dio.

Veniamo all’interpretazione della parabola in termini di coscienza, suggerita dal Papa.

Si tratta qui della coscienza erronea ed impermeabile, divenuta un radar incapace di segnalare le proprie colpe e sensibilissimo per quelle altrui, per altro con molti falsi positivi (vede quel che non c’è), e altrettanti falsi negativi (non coglie la verità profonda dei comportamenti).

Si tratta, ad esempio, di quelle incomprensioni inspiegabili che non solo feriscono dolorosamente i rapporti tra le persone (anche se condividono la stessa vita e gli stessi ideali), ma finiscono purtroppo per edificare muri di inimicizia, vanificando ogni tentativo di dialogo e conducendo non di rado a divisioni “inevitabili”.

Romano Guardini ha magistralmente descritto la “fisiopatologia” profonda di queste coscienze inferme:“Vedere è qualcosa d’altro da ciò che fa lo specchio, il quale cattura, indifferentemente, ciò che gli viene dinanzi. Il vedere scaturisce dalla vita e si riflette entro la vita. Vedere significa interiorizzare la cose; passare sotto il loro influsso; esserne afferrati. Così la volontà di vita vigila sullo sguardo. Nello sguardo opera la scelta della volontà di vedere, mediante la quale la vita si difende. Così avviene già per l’occhio del corpo, ancora molto più tuttavia per quello dello spirito: nel riconoscere l’altra persona, nel prendere posizione verso verità ed esigenze. Riconoscere una persona significa accogliere in se stessi il suo influsso; quando dunque io, per timore o avversione, voglio tenerla lontana da me, ciò si manifesta già nell’occhio. Il mio sguardo la vede in modo diverso; rimuove quanto v’è di buono in essa; sottolinea l’aspetto negativo; accentua talune connessioni, vede intenzioni che ne attraversano l’operare. Ciò avviene senza uno sforzo particolare, del tutto spontaneamente. Anzi, forse senza che io ne prenda coscienza in assoluto, e allora nel modo più potente; perché in tal caso la potenza deformante si sottrae a qualsiasi critica. Guardare è un agire che serve alla volontà di vita. Quanto più si insediano fermamente timore o avversione, tanto più duro è il serrarsi dell’occhio nel non voler vedere, finchè alla fine non è più in grado assolutamente di cogliere la verità dell’altro. E’ divenuto cieco rispetto a lui; la stor
ia di questa inimicizia contiene questo processo.
Qui allora non si aiutano più nessun discorso, nessuna indicazione, nessun insegnamento e nessuna spiegazione. L’occhio semplicemente non accoglie più quanto gli sta dinanzi. Se le cose al riguardo devono mutare in qualche misura, deve cambiarsi l’orientamento intenzionale. Il sentire deve volgersi verso la giustizia, il cuore deve sciogliersi – allora lo sguardo si apre e comincia a vedere..e così lentamente l’occhio si risana per cogliere la verità” (da “Il Signore”, pp. 208-9).

La seconda Lettura, con l’esempio di Paolo, ci offre un criterio personale per valutare lo stato di verità della coscienza.

Paolo è prigioniero, rischia la condanna a morte. Tuttavia è pervaso da una soprannaturale fiducia: “Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno” (2Tm 4,18). Rimasto solo, è nella pace con tutti e si sente come un re vincitore: “Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno..tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti non se ne tenga conto” (4,16).

Paolo, il cui temperamento focoso lo conduceva un tempo ad infuriare contro la Chiesa, è diventato mite e indulgente, perfettamente conforme al suo adorato modello Gesù, il quale sulla croce diceva: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Il suo cuore si è sciolto, ed ora può vedere tutte le cose a partire dalla compassione di Cristo.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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ZENIT Staff

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