ROMA, martedì, 12 ottobre 2010 (ZENIT.org).- “Dobbiamo perseguire pace e stabilità nei nostri Paesi e gridare a una voce: no alla guerra, sì alla pace; no alle armi di distruzione, sì al disarmo; no al terrorismo, sì alla fraternità universale; no alle divisioni e al fanatismo, sì all’unità, alla tolleranza e al dialogo”. L’appello accorato di mons. Shlemon Warduni, vescovo di Babilonia dei Caldei (Iraq) è stato uno dei 22 interventi susseguitisi nella terza congregazione generale dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi svoltasi stamattina in Vaticano. Erano presenti 165 padri sinodali su 186.
Dialogo con l’Islam e pace
“Non c’è tempo – ha affermato Warduni – per piangere sul passato ma occorre guardare al futuro anche se problematico, trovando nuove proposte per il dialogo tra i cristiani e con i musulmani”.
D’accordo mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk dei caldei: “Occorre un impegno serio per il dialogo con i musulmani: senza dialogo non ci sarà la pace e la stabilità. Insieme possiamo eliminare le guerre e tutte le forme di violenza”. “Dobbiamo unire le nostre voci – ha insistito Sako – per denunciare insieme il grande affare economico del commercio delle armi, una vera minaccia di guerra nella nostra regione dove si sono tragicamente avverate le parole di Giovanni Paolo II: ‘La guerra è un’avventura senza ritorno”.
Emigrazione e immigrazione dei cristiani
L’arcivescovo di Kirkuk si è soffermato anche sul problema dell’emigrazione “la più grande sfida che minaccia la nostra presenza” e ha invocato la responsabilità della Chiesa universale per trovare “con la comunità internazionale e le autorità locali scelte comuni che rispettino la dignità della persona umana”. “Invece di sopravvivere – ha concluso Sako – vogliamo vivere in pace e libertà”.
Se da alcuni paesi del Medio Oriente i cristiani emigrano, in altri arrivano in cerca di lavoro e pongono domande alla pastorale ordinaria: è il caso della penisola arabica dove molti sono i lavoratori filippini e indiani. Ma è il caso anche della regione del Maghreb, nell’Africa del nord: “Le chiese del Maghreb – ha affermato mons. Maroun Elias Lahham, vescovo di Tunisi – hanno solo fedeli stranieri, di non meno di 60 nazionalità”. “La collaborazione tra le chiese – ha proseguito Lahham – richiede uno scambio di preti, religiosi, laici consacrati e volontari per lavorare nelle parrocchie e nelle diverse istituzioni della chiesa dell’Africa del nord”.
Anche mons. Giorgio Bertin, o.f.m., vescovo di Gibuti ha proposto “per rafforzare la nostra testimonianza del Vangelo e annunciarlo ai musulmani” di “condividere, a livello del Medio Oriente o della Chiesa intera, i sacerdoti che abbiamo, con uno sviluppo della ‘fidei donum’”. Si potrebbe creare una vera e propria “banca di sacerdoti disponibili”, definibile anche come “sacerdoti senza frontiere”, per la quale “da tutte le chiese e congregazioni religiose un numero di sacerdoti si renda disponibile per un tempo determinato”.
Diaspora
Un aiuto per le chiese del Medio Oriente può arrivare dai loro stessi membri dispersi dalla diaspora in vari paesi del mondo: “A noi della diaspora – ha affermato mons. ‘Ad Abikaram, vescovo di Saint Maron di Sydney dei maroniti – è richiesto di educare, confermare e sensibilizzare il nostro popolo alla loro identità orientale nella fede e nelle radici. Questo li spingerà a supportare i fedeli delle loro chiese nel Medio Oriente e li renderà uniti in una stessa chiesa, nelle radici e nella diaspora”.
A proposito della diaspora e della necessità di accompagnare dal punto di vista pastorale “quantità espressive dei fedeli fuori dal territorio patriarcale”, non poche difficoltà, secondo mons. Vartan Waldir Boghossian, s.d.b., vescovo di S. Gregorio di Narek in Buenos Aires degli armeni, esarca apostolico per i fedeli di rito armeno residenti in America latina e Messico, “provengono dalla mancata accettazione da parte della chiesa sui iuris latina di accettare nel suo territorio la giurisdizione piena di un ordinario orientale”.
“Delle ventitré chiese di diritto proprio che formano oggi la chiesa cattolica – ha proseguito Boghossian – solo una, la latina, non ha la limitazione della giurisdizione al proprio territorio”.
“Anche dal punto di vista ecumenico – ha aggiunto Boghossian – la giurisdizione piena sui propri fedeli in tutti i continenti sarebbe per i fratelli separati un anticipo concreto di una situazione di comunione piena”.
I patriarchi protagonisti dell’elezione del Pontefice
Se il card. Angelo Sodano, decano del collegio cardinalizio, aveva sottolineato nel suo intervento che “l’unità fra pastori e fedeli in Medio oriente comporta una stretta unità con la chiesa di Roma”, “un’unione affettiva che deve portare a un’unione effettiva con la Santa Sede attraverso i numerosi canali oggi esistenti”, una nuova proposta di rafforzamento di tale unità è stata avanzata dall’esarca apostolico per i fedeli di rito armeno residenti in America latina e Messico.
“I patriarchi delle chiese orientali cattoliche – ha sostenuto Boghossian – per la loro identità di padri e capi di chiese sui iuris che compongono la cattolicità della chiesa, dovrebbero essere membri, ipso facto, del collegio che elegge il sommo pontefice, senza necessità di ricevere il titolo latino di cardinale”. Per lo stesso motivo, ha concluso Boghossian, “dovrebbero avere la precedenza su di loro”.
Gli interventi liberi
Agli 11 interventi della seconda congregazione generale svoltasi ieri (5 relazioni dai continenti più 6 interventi) si sono aggiunti 19 interventi “liberi”, cioè non programmati, nello spazio di un’ora e dalla durata di 3 minuti ciascuno. Ad essi era presente anche il Pontefice Benedetto XVI.
“Dopo un inizio un po’ impacciato – ha raccontato nel briefing svoltosi stamattina con i giornalisti del gruppo italiano l’addetto stampa don Giorgio Costantino – , un invito alla creatività e a lasciar da parte i fogli già preparati è stato simpaticamente rivolto ai padri sinodali dal segretario generale, mons. Nikola Eterović e la discussione si è ‘slegata’”.
Diversi gli argomenti affrontati, alcuni anche critici come “un certo pessimismo sull’esito del Sinodo e la necessità di creare meccanismi di attuazione delle risoluzioni finali”, la “mancata valorizzazione nel tema della missionarietà oltre che della comunione e della testimonianza” e “il limite esiguo di 5 minuti fissato per gli interventi”.
Si è sottolineata la “bellezza di una chiesa non monocromatica ma ricca di tradizioni” e ricordate le “iniziative pastorali a favore degli immigrati cristiani in Arabia” e “i progetti in comune con i musulmani nelle chiese libanesi”.
Non è mancata una proposta nella linea di una maggiore comunione: “perché il pontefice in alcune delle celebrazioni che si svolgono a S. Pietro non indossa paramenti delle tradizioni orientali? Anche questo rappresenterebbe un segno dell’essere un’unica chiesa”. Ogni due anni, ancora “potrebbe essere prevista una celebrazione del pontefice a S. Pietro insieme ai patriarchi delle chiese orientali”.
Sommando i 30 interventi di lunedì con i 22 di questo martedì, ha sottolineato don Costantino, “quasi un terzo dei padri sinodali ha già preso la parola”. Mercoledì 13 ottobre la discussione proseguirà nei circoli minori mentre nei prossimi giorni riprenderà in aula.