I militari uccisi in Afghanistan, “profeti del bene comune”

L’Ordinario militare per l’Italia presiede la Messa funebre

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ROMA, martedì, 12 ottobre 2010 (ZENIT.org).- “Profeti del bene comune”: così l’Arcivescovo Vincenzo Pelvi, Ordinario militare per l’Italia, ha definito Marco Pedone, Francesco Vannozzi, Gianmarco Manca e Sebastiano Ville, i militari uccisi sabato in Afghanistan.

Il presule ha presieduto questo martedì mattina la Messa funebre nella Basilica romana di Santa Maria degli Angeli. “In questa Basilica è raccolta simbolicamente l’Italia, che abbraccia nella preghiera Marco, Francesco, Gianmarco, Sebastiano”, ha affermato.

Nella sua omelia, monsignor Pelvi ha ricordato che i militari uccisi, “decisi a pagare di persona ciò in cui hanno creduto e per cui hanno vissuto, erano in Afghanistan per difendere, aiutare, addestrare”.

“Compito dei nostri militari, in quella martoriata terra, è il mantenimento della sicurezza, la formazione dell’esercito e della polizia afghana, la realizzazione di progetti civili come ponti, scuole, ambulatori e pozzi”.

L’uomo, ha sottolineato, “ha bisogno di pane, ha bisogno del nutrimento del corpo, ma nel più profondo ha bisogno soprattutto di Amore”, e “a questa fame dell’umanità risponde ogni nostro militare dando tutto se stesso”.

“Marco, Francesco, Gianmarco, Sebastiano hanno testimoniato l’amore nel servizio ai più deboli ed emarginati, senza esigere ma sostenendo; senza pretendere ma prendendosi cura; non rivendicando diritti ma rispondendo ai bisogni”.

La pace si costruisce sui valori

L’Ordinario militare ha ricordato che la pace “non può essere considerata come un prodotto tecnico, frutto soltanto di accordi tra governi o di iniziative volte ad assicurare efficienti aiuti economici”.

E’ vero, ha riconosciuto, che la sua costruzione “esige la costante tessitura di contatti diplomatici, scambi economici e tecnologici, di incontri culturali, di accordi su progetti comuni, come anche l’assunzione di impegni condivisi per arginare le minacce di tipo bellico e scalzare alla radice le ricorrenti tentazioni terroristiche”.

Perché questi sforzi possano produrre effetti duraturi, tuttavia, “è necessario che si appoggino su valori radicati nella verità della vita. Occorre cioè sentire la voce e guardare alla situazione delle popolazioni interessate per interpretarne adeguatamente le attese”.

“Ci si deve porre, per così dire, in continuità con lo sforzo di tante persone fortemente impegnate nel promuovere l’incontro tra i popoli e nel favorire lo sviluppo partendo dall’amore e dalla comprensione reciproca”.

Tra queste persone ci sono i militari italiani, “coinvolti nel grande compito di dare allo sviluppo e alla pace un senso pienamente umano”.

Dinanzi a questa responsabilità, “nessuno può restare neutrale o affidarsi a giochi di sensibilità variabili, che indeboliscono la tenuta di un impegno così delicato per la sicurezza dei popoli”.

“I nostri militari si nutrono anche della forza delle nostre convinzioni e della consapevolezza di una strategia chiara e armonica che le Nazioni mettono in campo per un progetto di convivenza mondiale ordinata”.

“Il vero dono non è dono di qualcosa, ma il dono di sé. Il dono ha a che fare con la vita, e perciò anche con la morte – ha concluso monsignor Pelvi –. Dare vita è offrirla, perderla. Invece chi dona solo il superfluo evita il rischio della morte ma mette a morte la dimensione del dono”.

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ZENIT Staff

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